Malatempora

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Va bene per le scuole?

La cosa peggiore che si può dire di un film è che “va bene per le scuole”. Quando un film va bene per le scuole – quando, cioè, scivola più o meno spontaneamente in questo supergenere ancora tutto da studiare – vuol dire, tra l’altro, che:

a) racconta cose “importanti”, il più delle volte di tipo storico/politico, in modo molto ordinato e quindi facilmente comprensibile e soprattutto immediatamente raccordabile a un capitolo del libro di testo;

b) ha dei “contenuti” chiaramente riconoscibili e spesso felicemente sintetizzati;

c) possiede un punto di vista che non lascia dubbi sul modo in cui il film intende la morale delle cose che dice;

d) fa piangere, o quasi;

e) ha un grande cast e un piccolo regista;

f) ha “creato dibattito”;

g) ne hanno scritto tutti bene (quelli che firmano gli elzeviri e le rubriche sui principali quotidiani italiani), tranne – ma non sempre – i critici cinematografici;

h) puoi farci un tema;

i) lo studente può parlarne con i genitori, che capiranno (o addirittura vederlo con loro);

l) non fa cose da film – non ha, per esempio, uno stile “complicato” o d’autore;

m) piace un po’ a tutti, soprattutto alle professoresse di storia e italiano.

L’elenco è certo incompleto, e non tutti i criteri devono essere necessariamente soddisfatti (per esempio, La vita è bella è piaciuto anche a molti critici), ma anche così si intuisce che per diventare un film “che va bene per le scuole”, un film di finzione (per i documentari la questione è un po’ diversa) non deve essere (troppo) cinema, in tutti o tanti sensi.

Ne è un esempio perfetto La mafia uccide solo d’estate di Pif, ragazzo simpatico e intelligente che in televisione ha fatto cose egregie con Il testimone. Per il debutto cinematografico ha però pensato di distillare il suo originale, impacciato diarismo culturale, in bilico tra Woody Allen e Milena Gabanelli, in forrestgumpismo screziato di sinistra.

Ne è uscito un film coscienzioso, che dice le cose giuste nel modo giusto (e prova a dirle tutte), tra il libro di storia e l’articolo di giornale; fa ridere e piangere, informa e suggestiona, procedendo – letteralmente – come un tema (“Io e la mafia”), e mescolando pubblico e privato. E nel quale, significativamente, Pif volta l’io delle sue produzioni televisive – che, spesso in modo sottilmente spregiudicato, osserva, indaga, domanda – in un soggetto che vive senza capire, cade nella storia, presenzia e non partecipa, pensa all’amore tra un omicidio di mafia e l’altro e, alla fine, riscatta se stesso portando il figlio in gita sui luoghi della memoria, rendendo fin troppo esplicita l’intenzione “didattica” che sta alla base del film. Un io da scolaro, insomma, che impara infine una lezione.

Lo sforzo è encomiabile: parlare di mafia ai “giovani” che non leggono Saviano e non guardano Garrone (troppo cinema!), a quei giovani che costituiscono una buona fetta del pubblico de Il testimone, giovani/giovanissimi, in età scolare (università compresa), in età Mtv. Sforzo che fa di La mafia uccide solo d’estate un film senza dubbio “utile”, e che però, al tempo stesso, sostenuto da un lessico cinetelevisivo schiacciato sul target, si traduce in un racconto senza rischi o aperture o “complicazioni”, che arriva alla testa (se non proprio alla coscienza) passando per la pancia, scossa alternativamente dalle risate e dalla commozione.

Un racconto che riesce nell’impresa di onorare tutti i tratti distintivi del film “che va bene per le scuole”; e, anzi, ne chiarisce un altro (“n”), fondamentale: questo tipo di film dura, in tutti i sensi, il tempo di una lezione.