Malatempora

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Clint, il cane pastore

Finalmente, grazie al film più brutto e insieme inevitabile della carriera di Eastwood (lo attendevo da anni, sapevo che sarebbe arrivato, e in fondo lo avevo già visto sottotraccia nei precedenti), mi è un po’ più chiaro perché per questo regista e i suoi film (anche quelli che ho amato o creduto di amare) ho sempre nutrito un sospetto o una specie di fastidio.

Eastwood è – si sente, crede di essere, vuole impegnarsi a essere – un regista cane pastore in un mondo di agnelli e lupi, secondo una segmentazione del genere umano che arriva a dieci minuti dall’inizio di un film che sembra scritto ritagliando un opuscolo della US Army (anche se la selva in questione, con piccole varianti, rimanda sia a Platone sia alla Bibbia): vale a dire, un mondo in cui gli agnelli soccombono, i lupi sono malvagi e feriscono, i cani pastore aiutano i primi contro i secondi. Difendono e proteggono, insegnano e guidano.

Sono i guerrieri, anzi la funzione guerriera, riempita qui di una morale non meno ideale e semplificatoria della tripartizione che li rende necessari. Sono dei leader (in una nazione di guerrieri, è inevitabile), come lo è Chris Kyle, e quindi degli eroi quando si passa allo storytelling, hanno le idee chiare, anzi chiarissime, giuste e pure e semplici, scolpite nella testa e nel cuore e, nel caso di Eastwood, negli occhi. E sono, naturalmente, alleati dei sacerdoti (della funzione sacerdotale): così, a quindici minuti dall’inizio del film, il piccolo e già coraggioso Chris Kyle va a messa con mamma agnello e papà cane pastore e fratello agnellino (poi disperso in un sub-plot senza senso) e ruba una Bibbia tascabile che si porterà in guerra e poi perderà nell’ultima missione ecc ecc (tutta roba vecchia, anzi antica, e già vista come quasi tutto in questo film).

Ma al cane pastore Eastwood non basta l’episodio del furto in chiesa: ecco un inserto in cui la macchina da presa, lentamente, compie un movimento in avanti stringendo a poco a poco sulla Bibbia appoggiata su un mobile, offerta così, per un tempo più che discreto, allo sguardo dello spettatore. Perché i cani pastore non si devono limitare a difendere gli agnelli: li radunano, li guidano, li istruiscono. E di movimenti come questi – forse solo un po’ meno gridati e esposti – è pieno tutto il cinema di Eastwood, millimetricamente costruito sulla regolazione ideologica, morale e emotiva dello spettatore. Altro che post o neo classicismo: è cinema col fucile, questo, girato da dietro un mirino.

Del resto, per fare il lavoro che fanno, i cani pastore devono avere le idee chiare e nessun dubbio, e una visione del mondo ripulita da qualsiasi incrostazione “culturale”. E in American Sniper quelle di Eastwood sono moralmente limpide come quelle di un sermone per bifolchi, e si traducono in un gioco deterministico e in una specchiata equivalenza tra cause ed effetti come neppure nei film pro-arruolamento pagati coi soldi del Governo durante la Seconda Guerra Mondiale; e i dialoghi restano per tutto il film (di una lunghezza ingiustificata) rivisti e limati da un’agenzia governativa.

Hai voglia a sperare in un momento di sottile ironia o critica sotterranea o cedimento o improvviso rovesciamento del senso ecc. In American Sniper non c’è nulla di tutto questo (anche se qualcuno, con un po’ di sforzo, riuscirà per l’ennesima volta a trasformare Eastwood in DeLillo), e il film resta non solo meccanico ma anche sconsolatamente letterale e patriotticamente servile: accade davvero che Chris, che naturalmente ha deciso di fare il cowboy (naturalmente perché American Sniper è anche, anzi soprattutto, una collezione di figure e simboli fondativi della cultura US), guardando la notizia di alcuni bombardamenti contro le ambasciate americane (se non ricordo male quelle del 1998 in Kenya e Tanzania), decida che per lui è il momento di partire, di aiutare il proprio Paese che è il più bello del mondo (lo dice davvero, perché lo pensa davvero), di fare il cane pastore come gli ha insegnato papà (ma come in realtà gli suggerisce un antico cromosoma a stelle e strisce), non prima però di aver messo su famiglia: e la celebrazione del matrimonio coincide naturalmente con l’ufficializzazione della partenza di Chris per il primo turno in Iraq. Nel frattempo, naturalmente, sono crollate le Twin Towers.

Se insisto sul naturalmente non è per facile ironia (né senza consapevolezza avverbiale: tutti abbiamo letto Philip Roth). Uno dei tanti problemi che rendono American Sniper non solo un film brutto, scritto e diretto male, noioso e prevedibile, con un cast imbarazzante ecc (per restare al piano dell’”intrattenimento”), ma più esattamente un film ignobile, è proprio il naturalmente con cui Eastwood cane pastore amministra il gregge, dentro e fuori lo schermo (e mi auguro davvero che nessuno scriverà di evangelica limpidezza…); e evito accuratamente – perché, naturalmente, sarebbe troppo facile – di rendere la questione squisitamente politica (per questo, si attendono i due abituali critici cinicironici di destra travestiti da sinistra, per un commento su quanto il film sia colpevolmente di sinistra e quindi di destra).

Quello che governa American Sniper è un naturalmente che nasce dritto dal paradigma del Manifest Destiny, storicizzato nell’evoluzione del cacciatore in cowboy e poi (e quindi) in guerriero, e del racconto western (ma fine Ottocento) in war movie, tutto chiuso (anzi spostato) sul problema “culturale” dell’identità guerriera, tra Bibbia, famiglia e fucili (un’altra famiglia), padri e figli (si noti la sofisticata specularità delle situazioni iniziale e finale, in cui un padre porta un figlio a caccia nella wilderness statunitense), tema svolto così meccanicamente (tutta roba già vista o letta) da imporre allo spettatore non il racconto ma, appunto, il principio e la logica (che poi, avendo a che fare con agnelli e pecore, è ciò che conta): quel naturalmente che inanella senza neppure un’increspatura morale o un dubbio o un più banale senso della realtà storia collettiva e vicenda privata, ideali astratti e azioni concrete, politica e cittadinanza.

Il tutto impaginato come in una serie di illustrazioni già fuori dal tempo e dentro il mito e la traduzione dell’archetipo: dalla prima sequenza all’ultima tutto procede a caratteri maiuscoli, e senza passare mai dal racconto si stilizza in emblema, anche grazie al ricorso continuo allo stereotipo e al luogo comune, flirtando con l’iconografia americana ma scivolando continuamente nella caricatura.

E lo scivolamento finale fuori dal racconto e dentro la realtà – sui titoli di coda, le immagini del “vero” Kyle e dei suoi funerali ecc – non fa che rafforzare la sensazione di un compito svolto senza cedimenti o dubbi, credendoci davvero, oggi, adesso, qui – come se fosse ancora possibile, semplice e naturale riportare gli Stati Uniti a se stessi, rinvigorirne l’impianto ideologico e rilanciarne la missione e il destino.

Ma Eastwood, appunto, è un cane pastore, e deve fare un film così: perché bisogna evitare di allevare cani da guardia che, per aggressività o fame o altre cattive abitudini o istinti, possano insidiare il gregge, facendosi essi stessi lupi. E dal punto di vista di Eastwood, naturalmente, c’è soltanto una soluzione: armare i cani pastore, ricordare alle pecore che sono soltanto pecore, ridurre i nemici a lupi. Sic et simpliciter. Naturalmente, oggi mi riguarderò The Hurt Locker.