"Spotlight", l'ardore civile del cinema classico

Chiesa patologica

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1976, una buia stazione di polizia di Boston ospita un prete, accusato di molestie e ben presto rilasciato nelle mani dell’Arcidiocesi. La stampa è tenuta alla larga, gli agenti vagano con lo sguardo, noncuranti. Il crimine, come il criminale, sembra svanire.

Molti anni dopo ci avventuriamo nei corridoi del Boston Globe, giornale che è una istituzione della città, proprio come la squadra di baseball dei Red Sox e come la Chiesa, fulcro di sorridente potere nella città più cattolica degli Stati Uniti. Al Globe c’è fermento: è appena arrivato un nuovo direttore (Liev Schreiber). Viene da fuori, non ama il baseball, è ebreo. Un outsider assoluto in una città che sembra vivere delle proprie liturgie: una metropoli che è un grande paese, dove tutti si conoscono, e dove nulla cambia mai davvero.

Il nuovo direttore però qualcosa vuole cambiare e dopo poco tempo affida al team di giornalisti investigativi "Spotlight" – tre uomini e una donna che sembrano vivere solo per il lavoro – una ricerca spinosa di cui nessuno vuole occuparsi: dei casi di molestie perpetrati da alcuni parroci della città su bambini e bambine. L’argomento è delicato, la Curia è in agguato, le presunte “mele marce” non devono infangare il buon nome della Chiesa. L’indagine, che porterà uno dei giornalisti a vincere il premio Pulitzer nel 2003, scoperchia un verminaio in cui gli abusi sui minori e i meccanismi di copertura dei colpevoli avevano un carattere sistematico, la diffusione di un’epidemia, le caratteristiche di una patologia psichiatrica collettiva.

Nella Chiesa tutti sapevano delle violenze, in primis lo stimato e potente Cardinale Law che ancora oggi sverna pacificamente a Santa Maria Maggiore a Roma, ma nessuno ha fatto nulla per evitare che si ripetessero. In Spotlight, Thomas McCarthy – autore di L’ospite inatteso e, in seguito, dei meno fortunati Mosse vincenti e The Cobbler – si mette al servizio della storia che racconta con sincera modestia e ammirevole umiltà.

Tutta la narrazione del film – fatta eccezione per il prologo che ha il sapore di un monito – segue esclusivamente il lavoro d’indagine dei giornalisti, la reiterazione dei gesti, i colloqui con avvocati potenti e avvocati meticolosi, la testardaggine, lo stupore di fronte all’ingigantirsi della vicenda, l’incessante ricerca che dà i suoi frutti soltanto attraverso un’aspirazione quasi mistica alla verità.

I quattro protagonisti – interpretati da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Brian D’Arcy James – sono in perenne movimento e la macchina da presa li segue con placida dedizione non per farne degli eroi ma perché solo attraverso i loro occhi – il loro lavoro – la verità può affermarsi.

Spotlight, che per evidenti assonanze tematiche può ricordare Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, tende a un’asciuttezza priva di quelle trovate autoriali tipiche della New Hollywood. Qui il regista si sacrifica alla storia, riuscendo però a costruire un racconto di disarmante onestà, che mostra un inaspettato pudore nei confronti delle vittime – mai un flashback, mai un eccesso retorico, solo le parole e i ricordi: i fatti – e rinuncia all’enfasi in favore di un’ordine stilistico fin troppo naturale.

Spotlight è un film tradizionale, certo, ma possiede l’ardore civile del cinema classico, sa creare intrattenimento intelligente trattando temi tragici, non ha paura di mettere ognuno davanti alle proprie responsabilità. Il linguaggio è convenzionale, ma è usato con mestiere per dire cose buone e giuste.