Concorso

"Foxcatcher" di Miller

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Ci sono le macerie fatte di bambini morti (Changeling). Ci sono quelle che nascono dall’ideologia e dal suo esercizio reiterato (The Master). E ci sono le macerie della Storia, che tentiamo di spazzare via (talvolta sotto il tappeto), che dimentichiamo o facciamo finta di dimenticare (pratica facile facile), che tornano e ritornano a farsi vedere, nella cornice del ritratto di un presidente, dietro il vetro di una teca, nel ricordo di un orgoglio nazionale dimenticato. Sono le macerie di un Paese che fa fatica a stare in piedi, un Grande Paese il cui presente è l’eredità del passato, un Paese di morti, di cimiteri, di lapidi a forma di medaglia.

Con i capolavori di Eastwood e Anderson, Foxcatcher è il film americano più importante e decisivo degli ultimi anni. Americano, sull’America, dell’America in quanto patria e identità, madre e padre. Un film che fa spavento perché fa spavento il terreno su cui abitiamo e nel quale ci riproduciamo, come la proprietà du Pont, memore di battaglie per la bandiera, rigogliosa e verde a forza di sangue versato.

Foxcatcher è un horror: sono fantasmi i personaggi, sono morti tutti, i morti ammazzati e i morti che camminano ancora, i morti che tentano di farsi strada alla larga dall’anonimato e i morti che soffocano e uccidono.

È un morto John du Pont, un morto solo e desolato, schiavo della madre, del denaro e di un ideale sformato; è morto Mark Schultz, che secondo le regole del cinema sportivo dai riflettori ridiscende alle stalle, finendo nel dietro le quinte di un’epoca senza margini. Come il Mickey Rourke di The Wrestler, Schultz torna da dove è venuto, mentre du Pont, come il lupo scorsesiano, tenta di piegare a sé un tempo che sa benissimo sfuggirgli di mano, non perché corre troppo veloce, ma perché è già decorso.

Ecco perché Foxcatcher è il The Wolf of Wall Street che avrebbe potuto e dovuto essere: un’opera silente sul Male che striscia e che ha già preso forma (gli anni ’80 reaganiani), un film di paura sulla paura per l’abisso. Come The Master. Come Changeling. Un cinema profondamente, prepotentemente, essenzialmente statunitense, per il quale le stelle e le strisce appartengono prima di tutto a un senso della vergogna che non può trovare più dimora. Un cinema che percepisce il peso del silenzio e dell’immobilità della Storia, irrigidita in un trofeo, ispessita nella volgarità di un’artiglieria da museo.

Questo film potente, ma di una potenza che assorda tanto è quieta, ci dice che la colonizzazione non avviene soltanto fra i confini geo-politici, ma riguarda anche le persone: si può colonizzare un uomo come uno Stato, basta la lusinga (molto più dei soldi). E a forza di colonie, si gettano le fondamenta:

Foxcatcher è puro cinema fondativo, la cui violenza è tutta sotterranea, nelle pieghe invisibili di palazzo, nello sguardo penetrante eppure sfuggente di un Faust moderno, che induce allo strappo dell’amore fraterno per farlo suo, adattarlo a sé, vestirlo come uno scalpo.

Fino alla fine. Ovvero fino alla fine di una vita che è anche la fine – forse – di un mondo. Una vita memoriale e mausoleale che non ha più forza, dove il denaro è privato di ogni potere, e dove la follia trova finalmente la porta di casa. È sempre vissuta con noi, la follia, per noi, esclusivamente destinata a noi: capita poi che dal profondo di ieri ci trovi, lasciando che l’oggi vada a lei.

Un boccone prelibato.