"Gerontophilia"

LaBruce à la Van Sant

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Che Bruce LaBruce fosse un romantico era ben chiaro già dal precedente L.A. Zombie, film che gli permise di farsi conoscere al di fuori delle sacche dell'underground.

Incline allo scandalo, LaBruce ha affinato una poetica capace di coniugare segni e simboli provenienti dai sotterranei della cultura queer con il gusto per il melodramma classico hollywoodiano. Una formula e una forma cinematografia dinamitarda, scaraventata contro il conservatorismo, non solo della cultura ufficiale ma anche del movimento gay, alle sue derive borghesi, middle class, a quella predilezione per l'icona del “maschio bianco”.

Con Gerontophilia, presentato all'interno della sezione “Giornate degli Autori” - storia di un 18enne attratto dagli anziani - LaBruce sovverte le aspettative, rinuncia alle asperità espressive e adotta un registro confidenziale e piano nell'incedere. Gioca sulle attese, alimentate dalla fama che ha preceduto il suo approdo lidense, e le elude realizzando una variante gay di Harold e Maude. Sorprende per delicatezza. Nei toni, evitando le eccessive caratterizzazioni, e nello stile, asciutto, perfino algido (quasi che si sia imposto un imperativo etico prima ancora che formale). Non giudica, non dimostra, non perora, ma osserva e ascolta.

Un film molto à la Van Sant, la cui poetica sembra essergli profondamente affine nei temi della marginalità, e con cui condivide lo sguardo sull’America, uno stato dell’essere più che un luogo, che pervade i personaggi del suo cinema e li impregna di solitudine. Quello che si rimprovera a LaBruce è forse un'eccessiva attenzione agli stilemi vansantiani, diventati delle costanti del cinema indie. Come il regista di Gerry, riesce a evitare pericolose implicazioni emotive o voyeuristiche grazie a uno sguardo che si esprime attraverso una forma ipercontrollata che però scade nell'asettico. C'è rispetto per la vitalità fragile e tormentata dei suoi personaggi. Non avrebbe guastato forse una maggior struggente malinconia.