"The Assassin" di Hou Hsiao-hsien

La guerra sconfitta dal cuore

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La guerra. Il cuore. Nient’altro. La guerra sconfitta dal cuore. L’inutilità della guerra messa a tappeto dalle palpitazioni del cuore. Il cuore che torna a battere, e che si ricorda, e che lascia che le emozioni, e la memoria, abbiano la meglio sullo stato delle cose.

Il nuovo film di Hou Hsiao-hsien è tutto qua. E non c’è niente di uguale. Perché l’idea del wuxia è presto abbandonata (e continuamente castrata nei duelli, che iniziano improvvisi e terminano ancor più bruscamente, quasi fossero scene di passaggio), mentre a prevalere, in questa vicenda ambientata in Cina nel IX secolo, in questa vicenda di un amore interrotto e poi ritrovato, di una memoria dimenticata e violentemente riscoperta, di una donna assassina dall’abilità incontrastata, di un signore di corte suo promesso sposo e ora bersaglio, e di una provincia, quella di Weibo, sull’orlo del caos, in questa vicenda così universale e così assoluta, a contare, e a impedire il corretto e previsto corso degli eventi, sono i sentimenti.

Non c’è niente di uguale a The Assassin. Hou torna a filmare come in Flowers of Shanghai, con leggerissimi movimenti di macchina laterali. A tal punto che, come nel suo capolavoro del 1998 (capolavoro fra i capolavori, a dir il vero), la forma diventa un’ipnosi sulla realtà, che avviene e esiste impercettibilmente ma definitivamente.

Ogni possibile immaginario wuxia (o, fossimo in Giappone, jidaigeki) non trova né un’elaborazione, né risoluzione. The Assassin non è né Kobayashi Masaki, né Kato Tai, né Mizoguchi; e ogni citazione possibile dei grandi maestri cino-hongkonghesi del genere, da King Hu a Chang Cheh a Lau Kar-leung, è azzerata a monte da un lavoro di stile che supera perfino la iper-rarefazione esercitata da Oshima con Gohatto (per non dire la trasfigurazione comunque straordinaria di Ozu per Café Lumière).

Hou ritrova gli assistenti di sempre (Mark Lee Ping Bing alla fotografia, Lim Giong alle musiche, Tu Duu-chih al suono, Shu Qi e Chang Chen davanti alla macchina da presa), e mette in scena un dramma in costume come fosse un avvenimento ipnagogico, dove il silenzio e le pause hanno la stessa funzione decisiva di un fendente di spada. Mentre il movimento ondulatorio, che nasconde una figura in ascolto e in attesa, che si avvicina a un dialogo, che scopre un personaggio, lascia che a dire non siano le parole, con le quali si citano più azioni e nomi di quanti se ne possano ricordare e capire a una sola visione, ma una certa sospensione magica del reale, in cui una tenda, una nuvola di nebbia stregonesca o due sguardi che si guardano senza pronunciare una parola possiedono il medesimo senso rivelatore. Senza trascurare peraltro i campi lunghi e lunghissimi, di cui Hou si è sempre servito per mettere a distanza con pudore e insieme svelare (qualcuno prima o poi dovrà inserire A Time to Live, a Time to Die fra i film più belli della storia del cinema), e che qui mostrano una definizione HD che lascia sbigottiti, facendo emergere e scomparire contemporaneamente spiegazioni e risposte.

Il cuore, allora. Prima e sopra tutto.