Recensione

La ricerca del GRA(L)

Il Grande Raccordo Anulare di Roma è un (non)luogo che si attraversa e basta. Una strada da percorrere per arrivare a casa, al lavoro, in tutti quei luoghi in cui si vive “davvero”. O almeno è così che appare a prima vista: spazio-territorio senza vita, senza memoria, senza bellezza. Ma cosa succede quando provi a guardarlo davvero, invece di passare senza vedere? Sacro GRA di Gianfranco Rosi è la risposta a questa domanda (cinematografica per eccellenza). O meglio, è una parte della risposta - una scelta tra i tanti incontri possibili e le storie ascoltate, ma anche tra gli spazi, i paesaggi, gli scorci. L’esplorazione proseguirà in un libro, una mostra, un sito web, una ricerca multidisciplinare alla ricerca del GRA(L), l’anima del luogo, la sua identità.

Il film di Gianfranco Rosi è una sorta di (laicissima) iniziazione a questo “mistero”. Non tanto una mappa per orientarsi, quanto un’immersione nella complessità, una raccolta di appunti, impressioni, visioni, vite ai margini, piccoli mondi che convivono intorno al “gigantesco serpente cinetico, figlio del boom economico e della motorizzazione di massa, moderna muraglia che cinge la Città Eterna” (definizione dell’architetto Renato Nicolini). Ed è una dimostrazione di cosa accade quando si sceglie di stare a guardare, di lasciare che sia la realtà ad emergere e a parlare, senza bisogno di decidere in partenza il senso del viaggio o il traguardo possibile, salvo poi mettere in scena ciò che hai incontraro. O meglio: è la ricostruzione narrativa di quel processo, del lavoro di scoperta e sguardo, che ne mantiene intatta l'immediatezza e allo stesso tempo lo eleva a metafora (il film nasce molto prima del girato).

Incontriamo un barelliere dentro e fuori la sua ambulanza, un “principe” nel suo castello-bed&breakfast ai margini di un ammasso informe di palazzine, un irresistibile cacciatore di anguille che vive sul Tevere sotto un cavalcavia, un attore di fotoromanzi in là con gli anni, un botanico in lotta contro le larve che uccidono le palme (le ascolta, le registra), un nobile piemontese che intrattiene la figlia con forbiti e improbabili discorsi in un monolocale con vista sul Raccordo. Ma non sono macchiette e neppure diventano simboli. Sono persone-personaggi, che Rosi incontra e ascolta in quanto tali.

E allora ciò che emerge è la realtà, semplicemente (e poco importa che sia "ricostruita") con le sue ambiguità e contraddizioni, gli aspetti comici e quelli inquietanti. Guardando Sacro GRA si capisce perché a Rosi non piaccia granché la definizione di “documentario”. E’ davvero, come dice lui, “cinema del reale”. Un grande soggetto, un’ottima sceneggiatura (che coincide col montaggio), una trama corale piena di rimandi, intrecci, allusioni che si inseguono.

Dentro quella realtà troviamo le brutture che sappiamo e la bellezza inaspettata (una rivelazione improvvisa), un gregge di pecore che bruca l’erba a pochi metri dalle auto lanciate a tutta velocità, la panoramica su un quartiere degradato e lo spettacolo elettrico del GRA di notte. Dentro la realtà c’è la commedia (alcuni dei momenti più divertenti di tutta la Mostra di Venezia 2013) e anche il dramma di chi non ha scelta, c’è il bizzarro, l’assurdo, l’inconsueto. Forse non ha trovato il GRA(L), ma qualcosa che gli assomiglia.