"Childhood of a leader" di Brady Corbet

La violenza nell'immagine

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Con un lungo e imbarazzante silenzio è stato accolto Childhood of a leader, opera prima del giovane regista americano Brady Corbet (attore in Melancholia, Funny Games, Forza maggiore), presentato nella sezione Orizzonti, durante la proiezione serale riservata alla stampa.

Un’accoglienza fin troppo tiepida per una delle pellicole più disturbanti e ambiziose viste finora a questa 72ª Mostra del Cinema di Venezia. Ma, dopotutto, il lavoro di Corbet è talmente straniante da dover riposare per qualche tempo nell’anima e nell’inconscio dello spettatore, ingenua vittima di un lavoro tanto inassimilabile quanto profondo.

Il film, ambientato nel 1919, alla fine della Grande Guerra, è suddiviso in quattro parti, chiamate allegoricamente “tantrum”, e racconta la solitaria infanzia di Prescott (un bravissimo Tom Sweet) bambino cresciuto in una gigantesca tenuta nella campagna francese, dove vive con la madre (Bérénice Bejo), fervida cattolica, e il padre (Liam Cunningham), importante diplomatico del gabinetto Wilson, intento a redigere il lacunoso e infausto Trattato di Versailles.

Sin dalle primissime scene capiamo che Childhood of a leader, liberamente ispirato al racconto Infanzia di un capo del filosofo Jean-Paul Sartre, non è un film che ama farsi guardare né tantomeno piacere: è un lavoro che vuole scuotere le viscere dello spettatore, catapultandolo nell’immaginario ideologico del primissimo dopoguerra, in cui la Storia partoriva solo cadaveri, rancori e futuri tiranni.

In questo senso, la pellicola riflette le emozioni che caratterizzarono il XX secolo, incanalandole negli scatti d’ira del giovane protagonista: egli non è solo testimone degli eventi ma è metafisicamente legato a essi, in un connubio insano di rabbia, odio, rancore, che si rivelerà particolarmente dannoso per gli eventi futuri, quando il bambino diverrà, in uno dei finali più criptici degli ultimi anni, un seguitissimo e osannato leader.

L’ambizione di Corbet, però, è da ricercarsi soprattutto nell’estrema manipolazione dell’immagine cinematografica che smette di essere una sterile simulazione del reale, divenendo parte della Storia e dell’emotività stessa del protagonista. Vorticosi movimenti di camera, bruschi stacchi e schizofreniche carrellate orizzontali, oltre a produrre un totale effetto disorientante nell’osservatore, sono i principali elementi utilizzati per trasporre visivamente la perturbante emotività del piccolo Prescott, metonimia del disagio di un’intera civiltà appena uscita da un conflitto, ma pronta a gettarsi nuovamente nelle braccia dell’autodistruzione.

A conferma dell’impeccabilità tecnica dell’intero lavoro si erige una fotografia eccezionale, in grado di farci respirare la decadenza del podere nel quale vivono i personaggi, ricreando un’atmosfera a metà strada tra i quadri barocchi di Velázquez e l’abissale profondità di Goya, il tutto accompagnato da una colonna sonora noise e tonitruante del compositore statunitense Scott Walker.

Infine, è interessante notare come l’unico film dell’intera Mostra girato in 35mm sia stato salutato con tanta freddezza: lontani dalla rivoluzione del digitale, che riesce ad immergerci in uno spazio-tempo talmente patinato e perfetto da rendere immacolata la realtà, Brady Corbet rompe gli schemi grazie a un lavoro visionario e avanguardistico, gettando una fioca luce sui fantasmi del nostro passato attraverso un’immagine sporca, materica, che emerge a fiotti dalla cinepresa e trasforma una  semplice proiezione cinematografica in un’esperienza sensoriale, organica, epidermica, destinata a rimanere a lungo incompresa.