"Jackson Heights" di Frederick Wiseman (Fuori Concorso)

Le mani su Babele

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Ogni film di Wiseman è un tassello che va ad aggiungersi e completare il mosaico cominciato nel 1967 con Titicut Follies e che di volta in volta si arricchisce di spazi e volti nuovi attraverso i quali provare a fissare, nel tempo di una visione, la continua trasformazione della società statunitense e, di riflesso, quella occidentale.

Luogo d’elezione questa volta è Jackson Heights, quartiere newyorkese che vanta, a detta degli stessi residenti che lì sono perché lì hanno deciso di stare, la comunità più diversificata del mondo. Una realtà babelica, intreccio di minoranze etniche e culturali, diventata oggetto d’attenzioni speculative da parte dei grandi potentati immobiliari e commerciali che, forti del proprio potere d’acquisto, vorrebbero farne bersaglio su cui sfogare le proprie logiche predatorie.

Wiseman registra, con sguardo umanista, attento ai meccanismi relazionali che un ambiente produce su chi lo vive, le tante anime della working class che abita Jackson Heights; lo fa, al solito, scegliendo un approccio che rifiuta, come scrive Roberto Chiesi, «angolazioni univoche e definitive», preferendo invece sviscerare «le diverse problematiche sociali e individuali in tutta la loro complessità e contraddittorietà». Un atteggiamento che sarebbe sbagliato raccontare come impersonale; del resto, è lo stesso regista a dichiarare: «Io non sono mai fisicamente presente nei miei film, per quanto lo sia intellettualmente dal momento che sono colui che fa le scelte. Non mi interessa fare film su me stesso».

E difatti è attraverso il lavoro di montaggio che Wiseman riesce a tracciare le tensioni che scuotono la quotidianità di questo quartiere: ogni gruppo sociale che abita Jackson Heights rivendica un riconoscimento ufficiale della propria appartenenza all’interno di questo spazio. Tutti vorrebbero sentirsi parte di una comunità, vedersi riconosciuti in quanto cittadini, ma ciascuno, schiacciato dalla retorica identitaria, continua a percepirsi come un immigrato, un clandestino, un corpo estraneo che deve essere rigettato.

Questa riflessione antropologica arriva allo spettatore senza bisogno di sottolineature e didascalismi; Wiseman ci mostra il quartiere di New York come uno spazio disorganico, impedendo una precisa individuazione delle angolazioni di ripresa e della conseguente disposizione dei frammenti urbani. Una situazione di smarrimento di fronte alla presentazione dello spazio necessaria per far percepire Jackson Heights come un'aggregazione atomistica di potenze isolate: una monadologia senza armonia prestabilita.