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Il fiume perduto del titolo è quello delle immagini che hanno accompagnato l'infanzia e l'adolescenza di Ryan Gosling.

I film di Sam Raimi – su tutti La casa (1981), citata in maniera estremamente esplicita – ma anche le pellicole che vedevano protagonista Barbara Steele, icona del cinema horror, qui nel ruolo della nonna che non parla ma continua a guardare vecchi filmati in cui lei appare magnetica e inquietante come lo era ne La maschera del demonio (1960) di Mario Bava o ne Il pozzo e il pendolo (1961) di Roger Corman.

Alle immagini estremamente evocative, che risentono, per la stilizzazione della trama - quasi nulla - e per certe atmosfere enigmatiche, dell'influenza di Nicolas Winding Refn e David Lynch, si contrappone una realtà che di evocativo non ha più nulla, ma che assiste al collasso dell'Immaginario, di cui il film si nutre, nel nudo Reale.

Scatti di violenza improvvisa e immotivata, sfoghi e pulsioni incontrollabili, il corpo delle donne, tra cui quello della protagonista, esibiti in spettacoli raccapriccianti (benché si tratti di recite), ma anche rinchiusi in sarcofagi di plastica che rimandano a certe pratiche sadomaso, contro cui i clienti possono scagliarsi, perpetrando veri abusi sulle loro persone.

È uno strano flusso di fantasie e immaginazioni Lost River, estremamente ambizioso, diretto con grande cura eppure sfilacciato e quasi infantile nei suoi evidenti entusiasmi. Di certo un'opera prima molto interessante, divertente da un lato e serissima dall'altro.

Proprio perché non ha più senso riesumare un genere che ormai è in grado di essere rivitalizzato solo attraverso sottotesti e discorsi metacinematografici (si veda la serie degli Scream di Wes Craven), la via che cerca Gosling è il tentativo di ricreare una camera dell'infanzia, in cui un bambino ha molto giocato, e qualcosa di quel modo di baloccarsi con le proprie paure e la propria fantasia è rimasto, come certe macchie sui muri che non vanno più via e che riemergono anche dopo l'ennesima mano di bianco.

Però poi il bambino è cresciuto e si è reso conto che i fantasmi e i mostri che vivevano sotto il letto, quando si spegneva la luce, sono reali, e il piacere non è più nel mettere in scena una situazione cruenta per esorcizzarla, ma utilizzare macchine sadiche in cui corpi reali provino dolore e sgorghino sangue.

Il ribaltamento avvenuto è già stato indagato da altri autori in maniera più profonda e geniale – oltre, solo per fare qualche esempio, a The Canyons di Paul Schrader, proprio l'altro giorno è stato presentato qui a Cannes l'ultimo, bellissimo, film di David Cronenberg, Maps to the Stars, crudele riflessione sulla fine dell'Immaginario in grado di evocare qualcosa, su un mondo incestuoso e malato, che si determina proprio nella malattia ed è destinato a estinguersi – eppure Lost River ha un una vivacità e una freschezza ammirevoli e, in una selezione non esattamente esaltante, in cui i grandi autori ripetono se stessi a vuoto, il film di Gosling dovrebbe essere salutato quantomeno con gioia, se non altro per il tentativo di mettersi in gioco e mettere in gioco i propri ricordi d'infanzia.

Un fiume limaccioso, certo, ma anche molto vitale.