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Madre single, figlio 16enne disturbato e una prof balbuziente che non ama parlare del proprio passato.

Il triangolo è questo. Folle, patologico, incestuoso, gioioso, appassionato, violento, comico, romantico. Ma non chiedete a Dolan una trama “coerente” o uno sviluppo narrativo “convincente”. Il suo cinema è fuoco, energia, è desiderio. Ogni scena vuole essere la più importante non solo del film ma anche della storia del cinema (questa l'ho rubata a Frodon). Ogni singola immagine ha più forza e verità di tutto Ken Loach e Tommy Lee Jones messi insieme. E poco importa che sia girata per strada o in un supermercato, dentro la cucina di casa o in un bar-karaoke.

Importa moltissimo, invece, che l'immagine sia schiacciata e dia l'illusione di essere verticale (il formato è 1:1), obbligando i personaggi a trovare una collocazione nel poco spazio a disposizione (è verticale anche lo sviluppo dell'inquadratura, formato-ritratto), costringendo il nostro sguardo sui volti e sui corpi, eliminando letteralmente il fuoricampo, nel senso che il buio rimasto ai margini dell'immagine (sono cancellati i limiti del quadro che di solito confinano col mondo) separa, isola i protagonisti della storia.

“L'apertura dello schermo”, spalancato dall'adolescente (Steve, il protagonista, ma anche Dolan, il regista), è uno dei momenti più straordinari di Cannes 2014, non per niente salutato da un'ovazione, nonostante, anzi, proprio per la sua sfacciataggine. Il successivo crescendo sinfonico verso la felicità (im)possibile, la “guarigione” per mezzo dell'amore, così “cinematografico” (ah, la trama! ah, la regia!), sarà poi brutalmente e ironicamente stroncato. Ma bisogna attendere il finale per capire davvero il senso di quel formato, bisogna aspettare quella porta-finestra, quella corsa: lo schermo 1:1 è la porta chiusa e insieme la via d'uscita, è il luogo in cui va in scena una disperata fallimentare contagiosa corsa verso la felicità e la libertà.

Dolan usa bella musica e sequenze da videoclip, indugia in trovate kitsch, si dimostra furbo, egocentrico e compiaciuto? E allora? Conoscete tanti altri registi, oggi, che abbiano la sua freschezza e vitalità, che sappiano produrre immagini così belle-potenti, che sappiano girare così bene e raccontare personaggi che non sono teoremi, simboli, metafore di un mondo, una classe sociale, una tesi piscologica, politica, sociologica, cine-autoriale?

Dolan non racconta dei losers, non sta a compiangere i suoi personaggi, ma li ama e ce li fa amare. Anche l'insopportabile ragazzo attaccabrighe iperattivo volgare pericoloso che vuole sua madre tutta per sé. Anche la madre incosciente e innamorata, grossolana e “perdente”, che non sa cosa fare e come fare con suo figlio. Anche e forse soprattutto la vicina di casa, la professoressa timida che fa di tutto per stare lontano da casa sua e che ritrova la voglia di vivere grazie a quei due.

La verbosa didascalia iniziale è quasi una beffa, allude a una legge che, in un Canada immaginario, permetterebbe di scaricare ragazzi difficili in apposite strutture, per liberarsi del problema. Come dire: questa è la cornice, il "problema", proprio ciò che a Dolan non interessa.

Superba Anne Dorval, già vista in J'au tué ma mère e Les Amours imaginaires.

Il piacere del cinema, finalmente. Ricordando che Dolan ha solo 25 anni...