Intervista a Eugène Green

Resistenza poetica (e sacra)

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"Faire la parole" è un film di resistenza.

Sì, certo. Ma resistenza non in un modo militante. Ci sono alcuni cineasti baschi che fanno film militanti sulla loro storia, sulla lotta, e io non volevo fare questo. Volevo fare un film politico, ma in un modo poetico.

Mi ha molto colpito la maniera in cui questi ragazzi si parlano, la loro dolcezza, la delicatezza che usano. Inizialmente pensavo che i dialoghi appartenessero alla sceneggiatura.

No, sono dialoghi improvvisati. Completamente. C'era una situazione di partenza. Io ho incontrato questi ragazzi un anno prima delle riprese del film, ci siamo visti varie volte e siamo diventati amici. Parlavamo sempre in francese tranne che con Ugaitz. Lui parlava solo basco e castigliano, e io capisco il castigliano ma non l'ho mai imparato, dunque non posso parlarlo, ma Ugaitz ha fatto un Erasmus a Trieste, e quindi con lui parlavo in italiano. Ovviamente con tutti loro abbiamo parlato del soggetto, dunque durante le riprese c'era una situazione di partenza che avevo spiegato, ma poi loro hanno parlato liberamente e tutto quello che dicono sono le loro parole spontanee.

Vedendo il film mi è venuta in mente una frase di Hannah Arendt, che diceva che la lingua è la casa.

Infatti. Per loro il basco è la prima lingua, è la lingua che parlano in famiglia. Tranne Aitor, i cui genitori non possono parlare basco, cioè sono baschi ma i nonni non volevano trasmettere questa "vergogna" - conseguente alla politica linguistica della Santissima Repubblica, classica, laica, e parigina, dalla Rivoluzione a questa parte - ai figli in Francia, gli altri hanno appreso il basco prima di imparare il francese. In casa, con i genitori e i fratelli, parlano solo in basco. Ma è vero che hanno due "case".

Ho scritto un romanzo che si intitola La Bataille de Roncevaux (2009) e il protagonista è un giovane basco, del Paese Basco Nord che, a causa della morte dei genitori in un incidente quando lui ha cinque anni, non ha ricordi prima di quell’età. Il suo primo ricordo è sotto un melo, sul retro della casa della nonna.

Lui guarda il melo e sente il vento, e si rende conto che per il melo e per il vento ha due parole, cioè la medesima cosa esiste in due maniere diverse, come se appartenessero a due persone diverse, perché una lingua è più di una casa, è una visione del mondo ed è anche il mezzo per costruirsi interiormente. Quindi quando uno parla più di una lingua abbastanza bene, soprattutto quando uno è bilingue come questi giovani, esiste due volte, ha due personalità, due visioni del mondo. E loro sono coscienti di ciò.

Comunque la cosa importante per questi ragazzi è soprattutto la differenza tra loro e gli adulti, come si vede anche nel film, perché i trentenni hanno sofferto per essere baschi, il mondo non voleva che lo fossero, voleva che fossero solo francesi. Mentre i ventenni sono coscienti della lotta e della sofferenza dei genitori, dei fratelli maggiori, ma per loro è una cosa più naturale, più dolce. Hanno studiato il basco fin dalle scuole elementari.

Pensando anche ai suoi film precedenti, all'uso di un francese che non è quello che normalmente si parla per strada, mi chiedo se anche quella non sia una forma di resistenza nei confronti di qualcosa che si sta perdendo.

Sì. Io ho capito molto giovane, all'età di cinque anni, non intellettualmente, ma interiormente, che l'uomo esiste attraverso una lingua. O parecchie lingue. Purtroppo io sono nato in un posto (New York, n.d.r.) dove non c'è una lingua, perché l'idioma sonoro dei barbari non è una lingua, è un mezzo di comunicazione, e quindi la mia quête, la mia ricerca, era di trovare una lingua e attraverso quella fare delle cose, seguire un cammino. Ho trovato la lingua francese ma amo tutte le lingue e le rispetto tutte.

Io trovo che il mondo, e soprattutto il mondo che conosco, cioè l'Europa, stia morendo, che la civiltà stia morendo, perché da una parte c'è un muro tra l'uomo e la natura e dall'altra parte c'è l'influenza dei barbari, quelli che io chiamo "i barbari" (gli americani, n.d.r.), che hanno imposto la loro mentalità al mondo intero. Io sono resistente, e resisto attraverso la lingua e la cultura in generale. Il mio lavoro artistico è il lavoro di un resistente. Per esempio, questo può sembrare superficiale, ma non lo è: non utilizzo mai le parole barbare che hanno invaso tutte le lingue, trovo sempre una parola che viene naturalmente dalla lingua che parlo. In Francia è terribile, ma in Italia è anche peggio. Nel cinema, per esempio, tutti utilizzano termini barbari o anche termini che non esistono in Barbaria, ma che in Italia pensano siano corretti, e anche in Francia fanno la stessa cosa. Per esempio, mentre giro un film, io non utilizzo la parola "set" ma "palco di riprese". È una forma di resistenza.

Mi viene in mente un film come quello di Jean-Luc Godard, "Adieu au langage" (2014), che riflette sulla fine e la dismissione di un linguaggio e per contro penso al suo cinema, invece, e a come riesca a trovare nel linguaggio già esistente una maniera di resistere poeticamente.

Io non ho visto Adieu au langage, ma la differenza principale credo risieda nel fatto che Godard è materialista, quindi per lui si può costruire dall'animale, per lui è una cosa naturale che i cani un giorno possano magari inventare una lingua, ma io sono spiritualista. Io credo che la lingua sia il dono più grande che abbiamo ricevuto da altrove e per me il linguaggio è sempre un terreno del sacro. Dunque non si può fare tabula rasa. Si deve provare, partendo dal linguaggio che abbiamo, a trovare il modo di dargli una nuova vita. Non si può inventare una nuova lingua, altrimenti si rischia di fare una cosa come l'esperanto, che è una cosa morta, perché è venuta dall'intelletto umano, e non è una grazia.

Nei suoi film c'è sempre un momento di grazia che arriva, a un certo punto, un momento di scoperta, di illuminazione.

Sì, è un'epifania, un'apparizione, una luce che appare. Questo c'è sempre nei miei film, anche nei miei romanzi. È una cosa che si trova anche nei cineasti che ammiro di più, come Bresson, ma anche Antonioni. La gente si stupisce quando parlo dell'aspetto spirituale dei film di Antonioni, ma esiste. C'è sempre un'epifania nel suo cinema e lui ha trovato un altro modo di far recitare gli attori, una maniera non psicologica, come Bresson, o come me, e Monica Vitti era la dea di questo tipo di recitazione. Ha filmato il mistero dell'essere umano e dell'interiorità. C'è sempre un momento di epifania anche nel cinema di Ozu. I suoi film sembrano basarsi su storie banali, di piccoli borghesi, ma arriva sempre un momento di epifania per il personaggio centrale. È un momento di grazia.

I personaggi dei suoi film non sembrano mai singoli individui, ma in un certo senso sono collegati tra loro, pur non conoscendosi talvolta, magari vengono messi in relazione da terzi. Sembra comunque ci sia una struttura al di sopra.

È vero, ma non è mai casuale l'incontro. Non c'è casualità. Loro credono e agiscono come se fossero liberi, e questo è necessario, ma c'è una logica superiore che fa sì che le persone che devono incontrarsi alla fine si incontrino. Non è necessario essere credenti, religiosi, per capire o sentire questo. È qualcosa di spirituale, sono le forze misteriose del mondo. Sono forze spirituali, ma io non le presento in modo dogmatico, seguendo una tradizione religiosa. Credo che il sacro non si possa capire senza riferimenti che vengono da una tradizione religiosa, perché sono cose che non hanno forma, che non hanno nome, ma ci si può ugualmente avvicinare attraverso strade diverse, non serve per forza un dogma religioso per arrivarci.

Anche la musica, nei suoi film, viene utilizzata in maniera epifanica, come fosse legata al sacro.

Ciò è totalmente vero. Io non utilizzo mai la musica come fondo sonoro, o come nei film barbari per far sapere al pubblico che sentimenti provare in un dato momento. C'è sempre musica all'inizio e alla fine, per i titoli di testa e per i titoli di coda, ma soprattutto all'inizio si tratta di una specie di prologo, con delle immagini che facciano già sentire determinate cose, anche se non si comprendono intellettualmente. E quando c'è la musica nell'azione, come in Le Pont des Arts (2004) o in A Religiosa Portuguesa (2009), o anche in Faire la parole, la musica diviene un personaggio. È vero che in questi momenti ci si avvicina al sacro.

Una cosa che mi ha colpito la settimana scorsa a Bayonne, poiché dopo la proiezione del film si parlava del sacro, è che i baschi della mia generazione, ma non solo i baschi, che sono generalmente molto anticlericali e antireligiosi, mi hanno quasi rimproverato di aver messo canti con temi religiosi o di aver girato una scena in una chiesa. Io ho spiegato che il sacro per me è dappertutto. E alla fine una signora è venuta a parlarmi e mi ha detto che il sacro era là nella scena dei tre cantanti con le candele e che lei aveva pianto. E anch'io ieri, rivedendo il film, rivedendo quella scena, avevo un po' le lacrime agli occhi, perché c'è la presenza del sacro attraverso la musica. La musica parla ancora più direttamente all'anima rispetto alla parola e all'immagine. Quando c'è la musica, il sacro è ancora più presente. In un modo forse più diretto.

Trovo i suoi film molto liberi e al tempo stesso, nella scelta di come girare le immagini, di come far recitare gli attori, della lingua utilizzata e dei dialoghi, mi sembra ci sia un grande rispetto per lo spettatore, che non viene mai avvicinato in maniera semplice.

Sì, è vero che sono libero, perché non seguo le regole del cinema ma invento le mie proprie regole e al tempo stesso ho un linguaggio personale, cinematografico, che è molto preciso. Infatti non cerco di prendere lo spettatore per mano ma di far sì che sia obbligato ad andare verso ciò che si mostra e di scoprire cose molto profonde. Cerco di creare emozioni nello spettatore, ma non nel modo corrente, non in maniera diretta, ma attraverso questo linguaggio.

In effetti nei suoi film capita sempre di commuoversi non a causa di qualcosa che normalmente porterebbe lo spettatore a una reazione emotiva (una perdita, una situazione triste), ma nei momenti di grazia.

A me questo, per esempio, capita col cinema di Ozu. Anche lui ha un linguaggio formale molto preciso e lì a me capita di commuovermi in momenti dove non c'è nulla di davvero drammatico. Magari basta la conversazione tra due membri di una famiglia e subito sento un'emozione profonda. E trovo lui abbia un grande rispetto per lo spettatore, che non viene "violentato", ma le emozioni arrivano da molto lontano e con una grande profondità.

A tal proposito mi viene in mente l'ultimo film di Apichatpong Weerasethakul, "Rak Ti Khon Kaen" (Cemetery of Splendour, uscito da poco in Francia e presente al 33. Torino Film Festival nella sezione Onde).

Sì, l'ho visto. Io non ho molto tempo per andare al cinema, ma i suoi film li ho visti tutti e trovo che questo, assieme a Sud pralad (Tropical Malady, 2004), sia il suo film più bello. È un film molto semplice e non è propriamente un film drammatico, ma ci sono dei momenti in cui si sente la presenza di questi morti, di questi fantasmi. Crea emozioni molto profonde, in maniera inaspettata. Tutti i film che mi piacciono di più non sono film tristi, sono film che danno una luce. Ed è quello che cerco di fare anche nei miei film.

Di tutto ciò che la ispira e che poi si ritrova nei suoi film (dalla musica al linguaggio, fino alle influenze di pittura e architettura) sembra affascinarla soprattutto la struttura.

Per me tutte le arti sono legate, infatti. Per esempio quando studiavo per tentare di far rivivere il teatro barocco, non ho studiato solo la recitazione e la gestualità, ma anche la pittura, la musica, l'architettura, perché volevo capire quel che rappresentava questo teatro nella civiltà dove è nato. Non ci penso intellettualmente ma credo ci siano, nel mio lavoro, influenze di tutte le arti. Ho scritto, per esempio, che le due arti che secondo me hanno il legame più stretto con il cinema sono la musica e l'architettura, perché si crea, in entrambi i casi, un tempo che diviene il tempo dello spettatore. E anche l'architettura dona allo spettatore un mondo "chiuso" che diviene il suo mondo, un tempo che non è solo il tempo in cui lo spettatore rimane in contatto con lei, ma è un tempo che porta con sé anche dopo. Questa esperienza, dunque, rimane nello spettatore. Non so se ci sia una gerarchia, ma ci sono influenze di tutte le arti.

Credo che il mio linguaggio cinematografico venga in parte dalla pittura: un modo di costruire le immagini, e anche lo sguardo dei personaggi, quando c'è un dialogo, che spesso guardano la macchina da presa. Questa è una cosa che esiste nella pittura: ci sono molti dipinti in cui i personaggi guardano direttamente lo spettatore. Anche nelle icone, per esempio. Ma non ci penso in maniera cosciente, è una cosa assimilata. Tutta la cultura deve essere assimilata. Spesso mi chiedono della presenza di Bresson nei miei film. Io l'ho scoperto quando ero adolescente e ho visto molte volte i suoi film, ma nessuno tra il 1983, l'anno di L'Argent, e il 1999, quando ho girato Toutes les nuits, il mio primo film. La cultura è come il cibo, infatti. Fisicamente il corpo è il risultato di quel che mangiamo, ma quando si guarda una persona non si vede una carota o altro. La cultura è la stessa cosa, diviene una parte di te.

Nei suoi film i personaggi non hanno una psicologia "psicoanalizzabile", intendo dire, di loro e delle loro azioni viene spiegato molto poco. Si può intuire qualcosa, ma non è detto si capiscano del tutto le loro azioni.

Infatti credo che la cosa più importante sia il mistero. Credo sia una cosa che ci manca molto, nel nostro mondo. Si pensa a spiegare tutto, a capire tutto, senza lasciare spazio all'immaginazione. Invece credo che il mistero sia indispensabile.