Concorso

Rester Vertical di Alain Guiraudie (II)

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Proviamo a rifondare il pensiero stesso. E anche ogni ideologia. Proviamo a tornare non tanto a B. Ruby Rich e al suo New Queer Cinema, ma ancora più indietro, a Mario Mieli, magari. Proviamo a vedere se si può fare, oggi. Non recuperare, bensì riazzerare; non riadeguarsi al passato, ma rimettere tutto in prospettiva zero, e da qui ripartire. Alla larga da archetipi, stereotipi e tradizioni, e anche dal conformismo dell’anticonformismo, ovvero i vestiti indossati prima dalla controcultura e poi dall’egemonia di ogni imperatore (e sono gli stessi vestiti, sempre).

Alain Guiraudie tenta l’impossibile, e fa un film per nessuno. Però un film per sé, senza dubbio, e per chi ha voglia di riflettere ancora sui queer studies. Strappa i veli dell’ipocrisia di sguardo, a cominciare da ideali e educazione; rinuncia al sensazionalismo descrivendo il sensazionale (e chi parla di scene scandalo è fuori
strada); sceglie dei simboli ma fuor di metafora, perché le allegorie servono agli sciocchi: e fa un passo ulteriore rispetto a Lo sconosciuto del lago, guardando e elaborando ciò che con quel film aveva scontornato (sottraendone letteralmente il contorno, il contesto). Così torna alle origini del sesso, del mito e della vita, prima del sesso e prima anche dei miti della vita. Oltre le identità.

È l’unico modo oggi per riappropriarsi di una natura. Rester vertical quale segno di un’alterità rispetto all’orizzontalità del mondo. La persona in piedi che affronta lupi e età ideologiche: non c’è più neppure il gender (tantomeno il cosiddetto e famigerato terzo sesso). Era proprio la Rich che insisteva qualche anno fa sulla rilevanza della razza, in una realtà governata dall’omologazione del gender: la razza di Rester vertical è una razza padrona di niente che non appartenga a se stessa, al di là degli uomini e delle donne.

Un nuovo sistema. Guiraudie vuole la vittoria dei numeri primi, indivisibili, non conciliabili, non piegabili. Questa è la razza di Rester vertical: una razza di specificità che non devono chiedere e non devono offrire, ma che devono prima di tutto ricredere nell’importanza di una visione personale. Una rivoluzione, dunque? Non esattamente: casomai una riformattazione. La pagina bianca su cui scrivere di nuovo la Storia.