Concorso

"The Homesman"

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Nebraska, 1854. Mary Bee Cudy (Hilary Swank) è una di quelle donne coriacee e agguerrite abituate alla vita di frontiera. Non è più tanto giovane eppure non si è mai sposata. Quando la gente entra in casa sua le chiede dove sia il Sig.Cudy, perché è strano che una donna di quell’età se ne stia da sola in una terra così inospitale.

Arabella Sours, Theoline Belknapp e Gro Svendsen invece sono tre donne che alla vita di frontiera non sono mai riuscite ad abituarsi: mariti violenti, figli morti e delle condizioni materiali talmente dure da spingere anche i più forti d’animo al limite. E a volte persino a superarlo, vedi il caso di quelli per cui al di là del limite c’è la sofferenza psichica; com’è accaduto a loro, la cui follia non è più contenibile. Perché le frontiere nei western non sono luoghi di divisioni nette. E la frontiera tra est e ovest è stato il modo con cui al cinema ha preso forma d’immagine il rapporto tra legge e violenza, tra civiltà e barbarie. O come accade in The Homesman, quella tra follia e normalità.

La follia è sempre stata storicamente il cono d’ombra di ogni forma di collettività. È un’alterità particolarmente difficile da trattare perché non è al di fuori di noi, ma sta al cuore di noi stessi, e “normalmente” proviamo con tutte le nostre forze a tenerla a distanza. Accade spesso nei western che l’alterità venga eliminata con la violenza, perché coloro che hanno la responsabilità di averci a che fare sono uomini. E gli uomini, si sa, di solito i problemi li trattano in questo modo. Ma – si chiede Tommy Lee Jones – cosa accadrebbe se l’alterità non venisse eliminata o uccisa, ma decidessimo di prenderci cura di lei? Cosa accadrebbe se la responsabilità venisse data a una donna, per giunta single, e non a un cowboy?

E così la donna che la vita della frontiera riesce a sopportarla – ne è in qualche modo al di qua – si prenderà cura di quelle tre donne che invece per mille motivi non ce l’hanno fatta e che ne sono finite al di là, oltre il confine della normalità, dove c’è solo la sofferenza della psicosi. Toccherà a Mary Bee Cudy riportarle letteralmente dall’altra parte della frontiera, che in questo caso avrà le sembianze del confine che separa il Nebraska (a ovest) dall’Iowa (a est): un movimento che è dunque l’inverso di quello che normalmente caratterizza i western. Perché appunto non si tratta di espellere l’alterità per fondare una comunità deprivata della violenza (tramite il suo attraversamento), ma di includerla, di riportarla dentro di sé. Quindi non più da est (dove ci sono ancora i limiti imposti della civiltà) a ovest (dove si può ricominciare da zero), ma da ovest a est.

The Homesman infatti non è riducibile in alcun modo a un semplice western “al femminile”, perché la sua posta in gioco è molto più alta e in un certo senso universale. Tradizionalmente questo è sempre stato il genere con cui il cinema americano ha pensato l’origine e il fondamento della propria collettività, consapevole che l’origine non è un fatto storico da ritrovare nel passato ma una costruzione narrativa volta verso il futuro: un distillato astratto e fuori dal tempo che dovrebbe mostrare quello a cui una collettività deve aspirare piuttosto che constatare quello che è.

La storia di Mary Bee Cudy allora non è solo un modo “femminile” di avere a che fare con la legge e la comunità, ma la sua elevazione a simbolo universale. Tommy Lee Jones infatti ce lo mostra chiaramente quando il film sposta l’attenzione dal personaggio interpretato da Hilary Swank alla trasformazione di un personaggio maschile, quello interpretato dallo stesso Tommy Lee Jones, che entra nella storia come un ladruncolo senza alcuna morale e ne esce trasformato. 

The Homesman è infatti un bellissimo romanzo di formazione, una sorta di parabola etica che ci mostra come si costruisce un soggetto che si prenda a cuore l’alterità di una comunità senza volerla espellere o eliminare. Il problema è che il mondo – nel West immaginato dal cinema, così come oggi qui da noi – stava e sta andando in tutt’altra direzione. Segno che forse quello in cui viviamo non è (ancora) un mondo per donne.