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Intervista a Frammartino

L’edizione 2013 del Filmmaker Festival si è aperta, venerdì 29 novembre, con Alberi, cineistallazione di Michelangelo Frammartino, proposta, dopo la presentazione a New York al MoMA PS1, in prima italiana al cinema Manzoni, storica sala cinematografica milanese, chiusa dal 2006 e riaperta per l’occasione. Alberi «è un lavoro che riflette sulla natura delle immagini e che interroga lo spettatore sulla pratica della visione». L’istallazione è visibile fino a domenica 8 dicembre dalle 16.30 alle 18.30.

C’è un rinnovamento in atto nel panorama cinematografico italiano, come si vede dall’interesse a interrogare e reinterpretare la realtà al di fuori dei diktat retorici e spettacolari. Tu sei uno dei protagonisti di questo nuovo corso: ci vuoi parlare dell’oltrepassamento tra realtà e finzione che caratterizza il tuo gesto filmico?

Credo, per come avvicino io la questione, che i termini attorno a cui impostare il discorso, che poi sono quelli che servono a me a orientarmi, siano controllo e non controllo. Filmando, compiendo dunque un’operazione che riguarda te come soggetto che guardi, ti poni un problema di istinto di controllo, che poi è l’atteggiamento col quale avviciniamo ogni cosa. Un desiderio di realizzare esattamente quello che hai in mente, a cui si accompagna, paradossalmente, la convinzione che il reale che hai di fronte sia più interessante di te, e che forse sarebbe più giusto se ti ponessi come un medium per permettergli di svelarsi. Questa contraddizione, tra l’istinto a controllare e l’intuizione per cui dovresti lasciar parlare la realtà, quest’aporia, penso che ci sia un po’ in chiunque quando filma. Io ad esempio preparo, disegno delle scene anche complesse e poi però scelgo un reale incontrollabile, come capre, alberi e celebrazioni antiche. È sempre costruito attorno a questo paradosso il cinema che cerco di fare.

Vedendo Alberi ho avuto un po’ la stessa sensazione provata di fronte a Stray Dogs di Tsai Ming-liang. Anche il tuo lavoro mi sembra rivolto all’incanto della visione, un tentativo per ricondurre l’immagine alla sua temporalità pre-moderna, fare di questa un’epifania.

Non ho visto il film di Tsai a Venezia, ma posso dirti che il suo cinema è stata una delle visioni più ricorrenti della mia formazione. Ho un po’ la sensazione che le immagini in movimento, o meglio, che la macchina da presa sia uno strano strumento capace di filmare il nostro legame con le cose, quel qualcosa di primordiale che pian piano abbiamo smarrito. Più che pre-moderno dire quindi pre.

Nel lavorare su riti antichissimi, su questi culti arborei, che ho scoperto non da molti anni, cerco di filmare questo legame originario, che, veramente, per me è fondamentale. Per sentirmi non sganciato, per non sentirmi solo. Quello che ricerco è una connessione profonda, un po’ come un animale mimetico, come quegli insetti-foglia che gridano la loro appartenenza alla foresta. E lo fanno in una maniera talmente viva che non puoi non pensare che non riguardi anche noi. Ecco, quando vedi gli umini-albero lucani capisci che gridano la loro appartenenza, perduta, al mondo.

Ho come l’impressione che tu chieda allo spettatore di rimparare a vedere il mondo, e di ripensare al proprio ruolo nei termini di un’esperienza performativa.

Per me una delle cose più belle, proprio come fruitore, è quando scopro che ciò che do per scontato, degli a priori della percezione e del sentire, che ormai quasi considero come facenti parte del funzionamento del mio corpo, risultano invece essere delle costruzioni. In questo senso, nei lavori che faccio mi piacerebbe molto che i fruitori, che sono poi dei compagni di viaggio, si rendessero conto insieme a me come il nostro modo di guardare sia indotto, costruito, e che quindi può anche essere smontato per vedere diversamente.

Per quello che dici, ritieni che la sala cinematografica sia ancora lo spazio più idoneo per proporre i tuoi lavori o ritieni invece che sarebbe più opportuno pensare a situazioni differenti?

No io credo che la sala cinematografica sia uno spazio molto interessante perché comunque è costruita attorno a una cultura della frontalità, del controllo, e quindi, in certi momenti, è addirittura efficacissima quando viene smontata, quando viene sovvertita da qualcosa che, dall’interno, mette in discussione le abitudini ad essa connesse. Io credo che la sala sia importante. Allo stesso tempo credo che sia un impegno politico far si che le immagini escano dalla sala.

Ormai sono molti anni che si assiste allo scivolamento delle immagini in città. Quando questo stava cominciando a succedere, mi piaceva pensare che si sarebbe risolto in una sorta di istallazione di Studio Azzurro urbana, che si potesse fruire l’immagine in una fusione totale. E invece è chiaro che a conquistare la superficie della città è stata la pubblicità, annullando così quella scommessa. È quindi importante tornare a pensare a delle immagini maggiormente fuse con le architetture e il contesto, che non siano semplicemente appoggiate, ma capaci di stimolare un dialogo. Quella piccola radura verde che abbiamo tracciato dentro il Manzoni era un po’ questo, una fuoriuscita delle immagini che cominciano a prendere una direzione. Prossimamente mi piacerebbe proseguire qualche metro più in là.

Con il tuo cinema è come se volessi ridimensionare la prospettiva umanocentrica.

Sì, c’è un’idea di uomo un po’ meno arrogante…

E' evidente anche dall’utilizzo che fai del parlato, ridotto a rumore fra i rumori.

Se ci fai caso, appena metti piede in una scuola di cinema la prima cosa che ti insegnano, i codici della serie visiva (primo piano; primissimo; mezza figura…) nominano le immagini a seconda della posizione che l’uomo assume al loro interno. Mi ricorda molto quando mia madre mi faceva usare la macchina fotografica di famiglia, che era un gioiello preziosissimo, raccomandandomi di usarla bene, e se per caso scopriva che avevo fotografavo dei cani mi rimproverava dicendomi che avevo buttato via uno scatto. Ecco questa centralità dell’uomo, questa arroganza, dovrebbe essere smontata per ricollocarlo come presenza fra altre presenze. Non per perderlo, ma per avere un’idea di uomo differente.

Quindi, in un certo senso, quello che vorresti è ricollocare l’uomo in un sistema dinamico di rapporti?

Ha a che fare con quella ricerca di un legame di cui dicevo all’inizio. Cioè, se ti collochi in cima alla piramide e ti poni come l’unico protagonista assoluto è chiaro che ti condanni a una solitudine altrettanto assoluta. Se invece instauri un rapporto un po’ meno arrogante hai la possibilità di recuperare un senso di appartenenza. È necessario questo abbassamento dei toni. Deleuze non a caso diceva che il cinema è capace di filmare il legame tra l’uomo e il mondo. Visto in questa maniera il cinema sembra davvero essere una macchina della connessione. Una sorta di terapia, di medicinale.

Per tornare al recupero del culto arboreo, alla figura del romita, centrale in Alberi, mi è tornata a mente una dichiarazione di Giovanni Lindo Ferretti secondo cui «solo chi onora la tradizione può essere agente del tradimento». Per te è lo stesso?

È un argomento delicatissimo, perché quando si tratta di tradizioni non ci si può non muovere con timore del tradimento. Quella del romita è una maschera satrianese che ha la specificità di essere fatta d’edera, ma è allo stesso connessa a una tradizione che trasversalmente tocca diverse culture: rientra nella famiglia dell’uomo selvatico, del green man. Quindi appartiene sicuramente e misteriosamente a un territorio molto vasto, se non addirittura mondiale.

Negli ultimissimi anni, la fatica della raccolta dell’edera e del vestirsi, non è che avesse diminuito l’amore dei satrianesi per questa maschera ma li aveva portati a tralasciarla, determinato così una sua progressiva sparizione. Per cercare di rilanciarla, di non perderla, avevano deciso di sottrarla alla sua originaria solitudine (nella tradizione il romito era un mendico ricoperto completamente di edera; una presenza solitaria e muta che si aggirava in paese in cerca di solidarietà) e riproporla in situazioni di collettività.

La prima vola che vidi dei romiti fu durante un corteo di carnevale, dove, tra tutte le possibili maschere, si aggiravano dei gruppi ragazzini, vestiti alla bell’e meglio dal loro professore delle medie. Quindi, quando mi hanno chiesto di aiutarli a recuperare questa maschera, io non ho fatto altro che assecondare il mutamento in corso, questo movimento che dal singolo si stava allargando alla collettività. L’aver filmato la foresta che cammina, il corteo di romiti che dal bosco sale in paese per arrivare in piazza, ha anticipato la trasformazione in atto. L’aspetto curioso è che le immagini sono arrivate prima del reale. È come si fossimo riusciti a tradurre cinematograficamente un pensiero che stava prendendo forma.