INTERVISTE

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La musica, dentro e fuori

La Red Bull Music Academy nasce a Berlino nel 1998 e si sviluppa nel tempo come un laboratorio itinerante: ogni anno sessanta musicisti e artisti di varie discipline si riuniscono in una diversa città del mondo (nel 2014 toccherà a Tokyo) per lavorare insieme e favorire l'incontro e lo scontro di idee.
In occasione del proprio quindicesimo anniversario, la RBMA ha incaricato il videoartista berlinese Ralf Schmerberg di realizzare un documentario sulle proprie attività,
What Difference Does It Make? A Film About Making Music, che verrà presentato il 17 febbraio con varie anteprime in giro per il globo (a Roma al Cinema Farnese) e sarà visibile gratuitamente in streaming a partire dal giorno successivo.
Il film è stato girato durante il workshop che l'Academy ha tenuto a New York nel 2013 ma, pur essendo sostanzialmente un lavoro su commissione, ha l'intelligenza di non presentarsi come un documentario celebrativo o didattico, piuttosto come un'occasione per ascoltare tanti musicisti – da Brian Eno a Philip Glass – parlare del proprio lavoro da diverse angolazioni: ispirazione artistica, apprendimento, motivazione e realizzazione personale, processo creativo, confronto con gli altri, questioni economiche. Per gli appassionati di musica, una piacevolissima visione.
Ne parliamo con il regista Ralf Schmerberg.

Come sei stato coinvolto nel progetto?
I responsabili dell'Academy mi hanno contattato domandandomi se ero disponibile a lavorare su un documentario, in modo molto semplice. Conoscevo già le loro attività, alle quali mi ero avvicinato nel 2011 in occasione della tappa madrilena, ma il film mi ha permesso di studiarle in maniera molto più approfondita. Ne sono rimasto intrigato e ho cercato di trasmettere le mie impressioni in modo efficace attraverso le immagini.

L'Academy ti ha dato delle indicazioni?
No, assolutamente. Sono stato libero di filmare tutto ciò che volevo. Ho conosciuto gli artisti, ho trascorso un sacco di tempo con loro e pian piano sono entrato in quella particolare atmosfera creativa che si vede nel film.

Hai scelto delle fonti di ispirazione prima di iniziare? Magari altri documentari musicali?
No, nulla: meno so in partenza e meglio faccio le mie cose. Sono molto intuitivo. Per me è questo il modo migliore di lavorare, l'unico possibile. Ho evitato di vedere altri film di genere simile. Con What Difference Does It make? volevo riuscire a parlare di musica con il publico, portando sullo schermo l'esperienza di questi musicisti e cosa significhi, per loro, fare materialmente musica.

Perché avete scelto questo titolo, What Difference Does It Make?
Ne abbiamo presi in considerazione diversi, alla fine abbiamo scelto questa citazione di Brian Eno (Why am I doing this and what difference does it make to the world?, ndr.) che non solo è una frase efficace ma esprime anche una domanda fondamentale, una domanda con cui ogni artista deve fare i conti. Il processo artistico è un fare continuo, spesso faticoso.

Il tuo sguardo da regista appare molto concentrato sui dettagli: le strade, i passanti, persino gli animali
Sì, amo molto osservare gli animali. In WDDIM mi sembrava interessante l'idea di esplorare anche tutto ciò che si nasconde dietro la musica e il lavoro di queste persone, per riuscire a rappresentare il loro mondo in modo più completo. E poi abbiamo girato a New York, era impossibile non filmare quelle strade.

Come avete lavorato tu e il montatore Einar Snorri sulla definizione della struttura narrativa?
Ci siamo concentrati su come evidenziare l'essenza di quei luoghi, di quelle persone. Abbiamo prestato molta attenzione ai dialoghi. È stato un approccio totalmente libero, non sapevamo in anticipo cosa sarebbe venuto fuori. C'è sempre tanta incertezza quando si inizia un nuovo progetto e spesso la scintilla che ti fa dire "That's it!" arriva molto tardi nel processo di lavoro. Bisogna mantenersi sempre aperti, senza decidere a priori come dovrà essere il film finito e quale sarà il suo significato.