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Virzì: "Un film meticcio"

Nei giorni in cui è avvenuta la conversazione riportata qui sotto, Il capitale umano doveva ancora uscire, nessun assessore della Brianza lo aveva visto e Paolo Virzì non era stato costretto a scrivere alcun tweet in difesa del suo film. Qualcosa, però, Virzì presagiva, in qualche modo sapeva che prima o poi la politica sarebbe arrivata a tirarlo per la giacchetta e a rivendicare diritti di proprietà geografica e identitaria; a dire che, sì, insomma, va bene l’ironia, ma la Brianza non è quella roba lì, che addirittura il film «è uno schiaffo ai brianzoli» e «una vera e propria mistificazione».

Lo presagiva perché prima di cominciare si diceva contento di parlare solamente di cinema, di modelli letterari e cinematografici, di noir, di umorismo nero e di spaesamento… Di tutto quanto, insomma, fa del Capitale umano il suo primo noir – per quanto, come dice lui, «sui generis» – e non lo schiaffo di un intellettuale malevolo alla brava gente del nord che si sveglia presto per andare al lavoro.In più – e di questo lo ringraziamo – Virzì ha regalato alla rivista i bozzetti preparatori per alcuni personaggi del film (Carla Bernaschi, Dino Ossola, Serena Ossola), disegnati da lui stesso e usati come punto di partenza per il lavoro con gli interpreti. Ci è sembrato dunque naturale usarli come illustrazioni dell’intervista, quasi ne fossero un commento e una sorta di approfondimento.

Partiamo dal punto più ovvio, Il capitale umano di Stephen Amidon: perché hai scelto di adattare un romanzo americano?
Abbiamo voluto [Virzì e i co-sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo, ndr] raccontare una storia partendo dalla superficie di un mondo e cercando a poco a poco di scavare a fondo. Dal romanzo di Amidon, che mette a disposizione una ricchissima materia letteraria, abbiamo preso la narrazione noir e il racconto a mosaico, più una serie di spunti per tratteggiare i personaggi. In generale, abbiamo cercato di raccontare una storia ponendoci a una certa distanza, rivelando la personalità di ogni personaggio, anche i peggiori, senza però giudicare, senza porci in una posizione di privilegio. Volevamo evitare di fare il tribunale, insomma.

Però tutti i personaggi del film sono a loro modo colpevoli; il mosaico non fa che raccontare la stessa storia da punti di vista differenti, decretando a ogni passaggio responsabilità condivise
Se ci pensi, tutti i protagonisti del Capitale umano sono dei mostri: l’agente immobiliare ambizioso, lo squalo della finanza, la moglie inetta che ha rinnegato il passato d’attrice, il professore pieno di passione e di interessi personali… Sono tutte persone normali, e al tempo stesso persone fuori misura. Ciascuno di loro, però, non sa di essere un mostro, e proprio questo mi appassionava: la loro apparente, e per molti versi autentica, buona fede. Quando ad esempio Dino Ossola, l’agente immobiliare, entra a gamba tesa nell’intimità della figlia per risolvere il mistero di un pover’uomo travolto da un’auto, è convinto di farlo per il bene della ragazza, nemmeno si rende conto del male che può fare. 

Direi piuttosto, dunque, che i personaggi del Capitale umano sono tutti colpevoli e tutti vittime. Se penso agli adulti, poi, devo concludere che sono tutti genitori smaniosi di stravincere, uomini e donne superficiali e umorali, di fronte ai quali è difficile tirare conclusioni.
In questo senso, in una prospettiva tipicamente anglosassone, il senso del film è nascosto, sotterrato come un’ascia di guerra, ed emerge poca alla volta. Sono perciò contento che susciti discussioni. Il mio lavoro, però, riguardava soprattutto la costruzione di una buona narrazione, tenere cioè un racconto sospeso, gestirne gli elementi, e creare una certa atmosfera, un certo tono.

Un noir, il nord Italia, una matrice letteraria, uno scrittore americano: Il capitale umano è il primo film che in un certo senso non ti appartiene, ma che al tempo stesso ripropone conflitti sociali e umani tipici del tuo cinema. Come ti sei trovato in questa condizione ambigua e contradditoria?
Il capitale umano è un film meticcio: è tratto (con disinvoltura) da un romanzo americano ed è girato in un territorio per me inedito, in un certo senso straniero tanto quanto il New England del plot originale. Fin dall’inizio delle riprese, in Brianza mi sentivo come all’estero, un po’ come deve essersi sentito Ang Lee quando ha girato Tempesta di ghiaccio sulla costa est degli Stati Uniti. Percepivo qualcosa che non capivo fino in fondo, e volevo che questo spaesamento entrasse nel film, che contribuisse a generare un tono misterioso, inafferrabile.
La stessa colonna musicale mischia suoni esotici e tribali: fiati indonesiani, percussioni giapponesi, il suono del flauto shakuhachi… Per trovare la concentrazione, spesso durante le riprese la ascoltavo in cuffia.

E in più c’è il dark humour anglosassone, a cui spesso hai fatto riferimento
Certo, quello viene da modelli cinematografici, soprattutto ebraici, come i Coen o Allen, o da esempi letterari come il romanzo sociale di Tom Wolfe, di cui Amidon è una sorta di erede. Ma poi c’erano anche altri elementi di spaesamento: la troupe, ad esempio, era in parte francese, il direttore della fotografia (Jérôme Alméras, ndr) era francese, e c’era pure un’attrice, Valeria Bruni Tedeschi, che è italiana ma in realtà è francese pure lei, e soprattutto mi faceva pensare ai film di Chabrol, a quello bellissimo si cui era una delle protagoniste, Il colore della menzogna. 
Insomma, sentivo che potevo riempire il film di tante cose diverse, che potevo aspettarmi delle sorprese, che lo spaesamento potesse trasparire. Tant’è che non mi sono divertito per niente a farlo: non avevo la mia gente, non sapevo a cosa guardare, volevo a tutti costi essere messo a disagio, girando di notte, nel gelo della Brianza, in paesaggio invernale misterioso come una tundra siberiana, che suggerisce la crisi di un mondo destinato a scomparire. 

Con Il capitale umano ho cercato di raccontare l’anima dell’Italia, come spesso ho fatto nel mio cinema, ma questa volta perdendomi nel paesaggio che filmavo e facendo una cosa inedita per me: mantenere salda la briglia di un racconto noir – per quanto un noir sui generis – gestito come un mosaico di punti di vista. Per fare questo ho cercato un tono sorprendente, nuovo per me e forse anche per il cinema italiano; qualcosa che mettesse in allarme, che faccia pensare a un’apocalisse incombente sulle vite dei personaggi.

Nel film è forte il senso di abbandono del presente, il legame perduto con il passato. In questo senso, il teatro che la ricca signora vorrebbe restaurare e che invece finisce vittima dei movimenti finanziari del marito, è una sorta di contrappunto metaforico del film, l’elemento che racchiude il fallimento di un mondo, con quella facciata in restauro e l’interno fatiscente carico di ricordi. Sei d’accordo?
Quello è il Teatro Politeama di Como, un bellissimo edificio in stile liberty importante fino agli anni ’60 e ora chiuso per davvero. Nel romanzo è un cinema degli anni ’30 in disuso e a rischio di smantellamento per far posto a un centro commerciale: sai com’è, gli americano hanno una storia molto più giovane della nostra… A me infatti sembrava più giusto trasformarlo in un teatro, e mi fa piacere che la sua immagine di decadenza ti abbia suscitato quel ragionamento.
Per quanto mi riguarda, volevo dire qualcosa sul ruolo incidentale e marginale della cultura in Italia, sottolineare il sogno patetico della ricca signora, la furbizia del professorino, la ricerca da parte di entrambi di un riscatto sociale. L’emergere, insomma, della miseria umana dietro questioni che dovrebbero essere importanti. Il teatro è il simbolo di una bellezza soffocata, come lo sono i disegni macabri di Luca, il ragazzo problematico e geniale, così pieni di dolore e di morte.

E il paesaggio urbano? È anche lui un elemento di bellezza soffocata?Certo. In questo senso mi sono divertito a fare per la prima volta una ripresa in elicottero, una ripresa dall’alto di una new town della Brianza: perché il paesaggio racconta tantissimo del mondo in cui viviamo. Le città dei Dino Ossola hanno case piccole, meschine, che riproducono in minuscolo le ville padronali; poco distanti questi insediamenti, poi, ci sono borghi semi-abbandonati (come Fortunago, nell’Oltrepò pavese, dove abbiamo trovato la grande magione aristocratica) che potrebbero essere ancora bellissimi. 

Tutto questo racchiude l’immagine dell’utopia di cattivo gusto di un intero mondo, la sua idea di ricchezza. È come vedere una città ricostruita dopo un terremoto, si percepisce il senso mortifero celato da un modello economico in crisi.

Quella ripresa dall’alto ricorda Piccola patria di Rossetto, un altro film sull’Italia delle periferie urbanizzate: pensi che possa avere qualcosa in comune con Il capitale umano?
Non saprei… Certo in Piccola patria non c’è humour, ma una tragedia presa di petto. Nel Capitale umano, invece, di fronte agli eventi drammatici non c’è mai pathos, ma piuttosto un sogghigno, come nei racconti degli ebrei americani. Se ci pensi, la scena agghiacciante del ricatto è anche umoristica.

In quella scena Bentivoglio fa quasi paura, o forse solo ribrezzo... Di sicuro, da momenti come quello si capisce il grande lavoro che hai fatto con gli attori. Puoi parlarcene?
Con tutti gli interpreti del film ho cercato una sorta di tono buffo: volevo che facessero paura, e che al tempo stesso scovassero qualcosa di sinistro o comico nel loro registro. Nella scena che citi c’è sicuramente un elemento spaventoso, ma pure una traccia di umorismo: come modello avevo in mente Fargo. 
A riprova del fatto che cercavo un aspetto umoristico, per la costruzione dei personaggi ho disegnato delle caricature e le ho fatta vedere agli attori perché prendessero spunto. È una cosa che in realtà faccio spesso, e che in questo caso mi serviva per far capire ai miei attori come vedevo i personaggi.
Volevo che non avessero paura di interpretare figure a loro modo sinistre e comiche, e devo dire di essere stato molto aiutato da attori veramente coraggiosi. In particolare, Bentivoglio e la Bruni Tedeschi hanno una grande predisposizione per l’autoironia e per la capacità di essere feroci con se stessi. Molte battute del film, poi, sono nate da improvvisazioni.