Michael Bay

La macchina del cinema

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Un cinema abbandonato. Vuoto, come sono vuote le sale quando non c’è un Transformers che riempie lo schermo e la platea (un film qualsiasi lo puoi guardare anche sul piccolo schermo di un pc, ma un Transformers…). Il vecchio nonno gestore borbotta giustamente contro il cinema dei sequel. Il giovane erede, invece, blatera di digitale e IMax, come un piazzista qualsiasi. Michael Bay, ovviamente, sta col nonno. Lui che firma ogni sequel come fosse una prima volta. Lui che ama il cinema e gioca a ucciderlo ogni volta, o meglio, a dargli scosse prepotenti (di meraviglia cinetica) simili a quelle del defibrillatore sul corpo quasi morto del cinema megalomane kolossale (industrial-melesiano).

Anche a Mark Wahlberg, l’inventore – quello che sa lanciare una palla da football e che crede ancora nel sogno americano -  sta più simpatico il vecchio. Cade Yeager è un tizio che assembla cose per creare altre cose. È uno che ricicla ferrivecchi, pezzi di scarto, sogni in disuso, per assemblare inutili marchingegni robot. Non per niente tocca a lui trovare un vecchio camion catorcio abbandonato nella sala abbandonata. E se vi state chiedendo “che diavolo ci faccia un camion dentro un cinema”, vuol dire che non conoscete Bay e siete convinti che un film debba avere per forza una trama coerente, credibile o perlomeno comprensibile.

Il camion è Optimus Prime, il Transformer per eccellenza, pronto a risorgere per dare l’ennesima scossa al cinema contemporaneo di consumo, quello che non si può concedere il lusso di piacere solo a chi se ne intende. Intanto abbiamo già assistito a una nuova spettacolare versione dell’estinzione preistorica; ci apprestiamo a ri-vivere la solita storia della ragazza (“gnocca”, come ripetono un po’ tutti) cresciuta dal padre e del fidanzato che deve meritarsela (gnocco anche lui); cerchiamo inutilmente di appassionarci all’immancabile intrigo della Cia più segreta che ci sia e di un industriale-inventore che vuole fare soldi con un nuovo tipo di metallo mutante.

Per circa un’ora e quaranta – tra immagini che magnificano l’estetica dello spot, soluzioni così grossolane da sembrare insieme idiote e sublimi, battute più o meno azzeccate – si ha come l’impressione di assistere a un lunghissimo trailer. Consumiamo avidamente e confusamente pezzi di qualcosa che possiamo solo intuire – ci sarà un film di 5, 7 o 15 ore da qualche parte, che qui possiamo solo annusare? – in cui si accavallano sensazioni, generi, invenzioni, brandelli di storie, intuizioni visive. Non c’è un filo da seguire per dipanare una qualche matassa psicologica o sentimentale. Proprio come accade nei trailer, si passa senza preavviso da un’emozione all’altra senza alcuna possibilità di emozionarci davvero.

D’altra parte, lo si capisce col procedere del film, degli umani qui potremmo farne anche a meno, mentre è indispensabile il residuo di umanità manifestata dai robot. Non ce ne potrebbe fregare di meno del destino della bella ragazza e del suo innamorato pilota, così come del padre costretto a fare l’eroe o dell’industriale convertito alla giusta causa (quella della spalla comica, perché l’altra era stata sacrificata un’ora prima). Un episodio dopo l’altro – nel primo c’era la storia di un ragazzo che ci divertiva e appassionava, trasformata-realizzata dall’arrivo dei Transformers, come fa di solito l’altro(ve) - i personaggi in carne e ossa sono diventati variabili trascurabili di un film che sta da un’altra parte e che negli ultimi 50 minuti offre un’altra stupefacente esibizione di potenza, un esercizio visivo ai limiti dell’astrazione. Il risultato è suggestivo, oltre che divertente, e suscita il legittimo sospetto di un’operazione teorica-estetica perfettamente consapevole.

Poco importa, poi, che ci siano i buoni alle prese con due categorie di cattivi, i robot creati dall’uomo per avidità e quelli arrivati dallo spazio per compiere una qualche missione cosmica. Si allude a un Creatore, ma non c’è alcuna voglia di giocare alla metafora filosofica colta (come fanno gli autori hollywoodiani che si inchinano alle regole di Hollywood ma intanto ci fanno sapere che sono degli autori). Si racconta un comparto segreto del servizio segreto, con la sua battaglia patriottica, ipocrita e razzista (pro-razza umana, contro i robot buoni o cattivi, anche quelli che hanno un’anima), ma l’elaborazione politica è sotto zero. Si mette in scena il padre che si sacrifica, ma solo per esigenze di plot.

Transformers 4 gioca con i ruoli e i luoghi comuni del genere, cita, allude, (auto)ironizza ma senza fare una parodia, mostra i muscoli ma per ricavarne un piacere che sta tutto e solo negli occhi. Meno godibile, cinematografico e spettacolarmente spettacolare di altri episodi, porta però ancora più in là (e rende più esplicito) il suo discorso, che è insieme inquietante e affascinante, ha a che vedere con ciò che siamo diventati e con il cinema che ci assomiglia di più, anche se preferiremmo di no.

Transformers 4 - L'era dell'estinzione
Usa, Cina, 2014, 165'
Titolo originale:
Transformers: Age of Extinction
Regia:
Michael Bay
Sceneggiatura:
Ehren Kruger
Fotografia:
Amir M. Mokri
Montaggio:
Roger Barton, William Goldenberg, Paul Rubell
Musica:
Steve Jablonsky
Cast:
Mike Collins, Geng Han, Zou Shiming, Charles Parnell, Erika Fong, James Bachman, Thomas Lennon, Sophia Myles, Bingbing Li, T.J. Miller, Jack Reynor, Titus Welliver, Kelsey Grammer, Nicola Peltz, Stanley Tucci, Mark Wahlberg
Produzione:
Paramount Pictures
Distribuzione:
Universal Pictures

Quattro anni dopo l'ultima grande battaglia tra i robot che ha lasciato la terra in rovina, l’umanità si è ricomposta mentre Autobot e Decepticon sono quasi spariti dal pianeta. Un gruppo di potenti e ingegnosi uomini d’affari e scienziati tenta ora di imparare dalle passate incursioni dei robot spingendosi oltre i limiti controllabili della tecnologia - tutto questo mentre un’antica e potente minaccia Transformer prende di mira la Terra. L’epica avventura e battaglia tra bene e male, libertà e schiavitù ricomincia.

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