Alejandro González Iñárritu

Niente da raccontare

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Di cosa parliamo quando parliamo non di amore, e nemmeno di spettacolo, di immagini, di ambizioni e di fallimenti, ma della fine? Della fine di tutto, di un intero sistema di rappresentazione e non solo del cinema e della critica; della fine, e del fallimento, di ogni tentativo di iscrivere la realtà, le sue immagini e i suoi pensieri, in una cornice scenografica e narrativa. Di cosa parliamo, insomma, quando non si trova più il modo per dire le cose, quando già parlare è di per sé il segno di un’agonia?

Birdman è un film nervoso, agitato, che non sta fermo un attimo, perché prova a liberarsi dal gorgo di immagini, suoni, corpi e parole nel quale si è volutamente infilato. Iñarritu ci ha messo praticamente tutto ciò che rimanda all’universo della cultura americana, Hollywood, Broadway, Carver, New York, il jazz, Twitter, i supereroi, il metodo, il mito della seconda possibilità, la disintossicazione, la fine degli amori, la rivalsa… E con il movimento generato da infiniti piani sequenza montati come se sembrassero uno solo, ha provato a inseguire quell’uniformità di sguardo, di pensiero e di immaginazione che sembriamo aver tutti quanti perduto.

Il protagonista è un attore sessantenne in crisi, che dopo essere stato celebre negli anni ’90 come Birdman (a interpretarlo è Michael Keaton, e non può non rimandare al lontanissimo Batman di Burton) prova a riciclarsi come attore e regista teatrale: a Broadway, con Carver – un libero allestimento di Cosa parliamo quando parliamo d’amore – con lo stereotipo della profondità americana, dunque, cioè il minimalismo delle parole che diventa al contrario eccesso di effetti, di sentimenti, di rumori e di realtà.

Negli interni del St. James Theater, che la macchina da presa percorre in lungo e in largo, di su e di giù, di qui e di là, si prova, si litiga, si discute, ci si bacia, ci si affanna, si fanno i conti con il passato, con il risentimento, con il fallimento e la  rivalsa. Si vive, insomma, e al tempo stesso si ripete la vita sul palco.

Certo Iñarritu non è Assayas, e Birdman non è Sils Maria: ma il discorso è lo stesso, la difficoltà cioè di adattarsi a un mondo che non chiede più di essere raccontato, che non ha più bisogno di parole, riflessioni, verità o bugie, ma solo di emozioni. Almeno nella prima parte del film, che scorre via leggera, che è visivamente eccessiva come tutto il resto, ma riesce anche a essere libera, a salire e scendere, a sbandare e riprendersi, con la piacevole sensazione di un cinema sovraccarico ma contenuto, limpido a suo modo, Birdman regge il gioco.

Fonde un tema vecchissimo come il rapporto tra teatro e vita tirando fuori dagli interpreti (e soprattutto, finalmente, da un fantastico Edward Norton) una energia fisica straordinaria, un flusso creativo che redime la cupezza dell’ambientazione (il film è girato quasi tutto in interni, e anche quando si esce su New York piove e non c’è spazio, c’è gente ovunque, gente che abbraccia, soffoca, filma…) e la filosofia mortifera messa in campo a cominciare da Carver, con l’inappagato desiderio d’amore del testo teatrale che si riflette nell’inappagato desiderio di ammirazione degli attori, nella loro insoddisfazione esistenziale, nella continua resa dei conti fra il protagonista e la sua coscienza in voce over…

Gli stessi continui, ottusi piani sequenza di Iñarritu riprendono l’idea di ripetizione e di vortice, rinchiudono i personaggi nel loro mondo e così i loro pensieri, i rimandi culturali che chiamano in causa, la loro immagine inevitabilmente riprodotta, postata, seguita, condivisa... Birdman è un gioco dell’oca, un cul-de-sac.

Peccato che Inarritu non abbia il coraggio di percorrere fino in fondo il vicolo cieco in cu infila, di interrogare per davvero quel problema di rappresentazione della realtà, di pornografia dello sguardo a cui prova ad adattarsi (cosa che invece fa Assayas, con i finti filmati di internet di Sils Maria, il finto blockbuster, la scenografie teatrali trasparenti…).

È vero che nel finale fa dire al personaggio della critica teatrale che si arriva a una nuova forma di messinscena, a un super-realismo che potrebbe essere la negazione della finzione e insieme il suo superamento, ma in realtà nella seconda parte di Birdman quello che interessa veramente è la solita, stanca redenzione del protagonista, la nuova libertà che finisce per conquistarsi (e che ironicamente coincide con la sua sparizione, con la prima e unica cosa del film che non si vede), riducendo però a parabola esistenziale, o al massimo a beffarda riaffermazione di un mondo dato per morto da sempre, quella che avrebbe potuto essere una interessante e attualissima riflessione sulla necessaria inutilità dello spettacolo oltre lo spettacolo.

Birdman
USA,Canada, 2014, 119'
Titolo originale:
id.
Regia:
Alejandro González Iñárritu
Sceneggiatura:
Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo
Fotografia:
Emmanuel Lubezki
Montaggio:
Douglas Crise, Stephen Mirrione
Musica:
Antonio Sanchez
Cast:
Michael Keaton, Emma Stone, Kenny Chin, Jamahl Garrison-Lowe, Zach Galifianakis, Naomi Watts
Produzione:
New Regency Pictures, Worldview Entertainment
Distribuzione:
20th Century Fox, Antonio Sanchez

Riggan Thomson, attore in declino, dopo un folgorante passato nei panni di un glorioso supereroe, spera di rilanciare la sua carriera dirigendo un nuovo, ambizioso spettacolo a Broadway per dimostrare a tutti che non è solo una ex star di Hollywood. 

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