Fabio Badolato, Jonny Costantino

Il firmamento

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L'epidermide dell'uomo è coperta di cicatrici, un paesaggio intagliato, chiaroscurato di pericolose attrazioni scopiche. Il capezzolo di lei è una forma montuosa lunare. Il firmamento è una visione mentale, prodotta dall'immaginazione survoltata dal piacere. Si manifesta come una spaccatura generativa ma soprattutto come un suono, il basso continuo di un'eco: L'origine du monde.

Musica per stanze da letto. I due amanti hanno trovato rifugio lontano dalle strade della città, esposte alle luci, ai rumori, al caos. Qui c'è un avanzo di pizza, ci sono i tubi del lavandino. Qui c'è l'abbandono e la complicità. I corpi nudi sono modellati dalle luci, accarezzati dalla macchina da presa e fatti a pezzi dal prolettico montaggio: fianchi, occhi, nasi, seni, sopracciglia, organi sessuali. Fatalmente esposti anch'essi, i corpi, alla curvatura imprevista della situazione, che si genera da una sola frase, pronunciata – forse – senza motivo. In quel lago di calma che è il desiderio soddisfatto, effimera eternità, bastano poche parole a provocare l'increspatura che rilancia il gioco verso nuovi limiti da infrangere.

Formula magica dell'offerta e della crudeltà. Sarà la donna a farsi divorare: una legge di natura? Fino a dove può arrivare la misura della verità in uno stereotipo prima di trasformarsi in ideologia, in inganno? Danza macabra della tentazione che, sollecitata dapprima quasi in un impeto ludico, si fa strada sempre più spavalda, rivendicando il proprio diritto al sangue, al massacro. Le parole, infine, tagliano quanto la spada. 


Badolato e Costantino si sono impadroniti del testo teatrale di Antonio Moresco (fagocitandone l'autore nella messa a punto dei dialoghi sotto forma di didascalie) con la determinazione e la precisione di sguardo che già marcano la riuscita delle loro opere precedenti. Non traggano in inganno l'apparente essenzialità del set e del cast: mettere in struttura drammaturgico/narrativa pochi elementi è più complicato di quanto non sia quando se ne ha a disposizione una quantità. La scommessa non era soltanto quella – ovvia – di dare un respiro diverso, cinematografico, all'impianto teatrale dell'originale.

In questo il lavoro di montaggio (per attrazione, certo, ma anche diegetico e sempre, diciamo, in allarme a non cadere nella trappola dell'arbitrario) è naturalmente di indiscutibile importanza. Ma anche quella di mantenere il giusto ritmo dell'oscillazione ipnotica tra il sublime e l'insulso, tra l'ordinario e il terribile. Il taglio delle inquadrature, le sfocature e le deformazioni, la stessa alternanza tra immagini e didascalie si occupano di questo aspetto della questione. Nella messa in scena di un tale paradosso sentimentale del tragico, la voce umana resta assente come elemento sonoro che fa da esca all'identificazione dello spettatore, sostituita da quella forma di sacralità che soltanto la parola scritta può dare, anche quando ci rende conto dei dialoghi più quotidiani.

L'urlo che segue ai colpi del tagliaossa è vocalità pura, grado zero dell'espressione non a caso subito completata dal nuovo scambio di battute, lettere luminose su fondo nero: «Mi hai tagliata!», «Per forza. Finalmente ho aperto gli occhi. Ho capito! Adesso ti vedo come sei veramente. Mi fai orrore!» . La sbigottita presa d'atto della vittima, finalmente tornata in sé, la beffarda ritorsione del carnefice. Il firmamento è anche una lapidaria presa d'atto di come la potenza evocativa del mélo possa avere ragione dell'opzione narrativa più immotivata, che anzi lo nutre e gli dà vigore.

Adriano Piccardi (CINEFORUM 531, Gennaio/Febbraio 2014)