Omaggio a Peter Sellers

Oltre il giardino di Hal Ashby

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Esattamente quarant'anni fa – il 24 luglio del 1980 – se ne andava a soli 54 anni Peter Sellers. Uno dei più grandi attori comici (e non solo) della storia del cinema e uno dei più versatili e poliedrici in assoluto. Lo vogliamo ricordare con questa recensione del suo ultimo film, Oltre il giardino di Hal Ashby, apparsa su Cineforum nº 200 del dicembre 1980 firmata Gualtiero De Marinis.


Necrologia

Il luogo retorico del necrologio è quanto di più fastidioso si possa immaginare. Assomiglia vagamente al frasario usurato che accompagna le stragi e le crisi di un governo. Non si scappa in genere dalla formula: «Un grande uomo di spettacolo, un grande umanitario e mio amico personale da almeno venticinque anni». Forse la forma migliore (perché la più falsa) del necrologio (di se stessi), così come l'abbiamo ascoltata in All That Jazz. Si dice, infatti, che l'uomo di spettacolo debba morire in scena come Molière, perché è quello il luogo della sua verità, il luogo in cui più e più volte ha mimato la vita altrui e in cui dovrà per forza tentare d'ingannare la morte, mimando la propria. Si dice anche che questo debba avvenire senza che il pubblico finisca per accorgersi che la morte non è soltanto recitata e quindi tra squilli di trombe e allegre fanfare (come accadde già a George C. Scott nel Movie Movie di Donen).

Possiamo pensare allora che Sellers sia uscito di scena con una musica di Henry Mancini, scusandosi con un malcelato accento francese per non averlo fatto in punta di piedi, ma con un comico tonfo nella vasca del giardino. Nelle afose giornate d’agosto, dalle prodighe pagine dell’«Espresso», Umberto Eco si è premurato di dirci che Sellers non è Woody Allen. Grazie di tutto, lo sapevamo già. Reduce da una squinternata e irripetibile partita a ping pong, nella fatiscenza e abbandono di una casa sontuosa (è l'attacco di Lolita), Peter Sellers è semplicemente morto. Dopo aver terminato Fu Man Chu, avrebbe dovuto girare un altro film con la Lorimar sul movie-business intitolato S.O.B., un’altra Pantera Rosa con Edwards dal titolo The Romance of the Pink Panther e infine un Unfaithfully Yours diretto da Howard Zieff. Ora, semplicemente, non girerà più nessuno del tre. È probabile, d’altronde, che alla notizia della sua morte, Ashby abbia pensato (come accadde già nel Pornografo di Byrum): «Ringrazio il cielo che quel figlio di puttana non è morto durante il mio film». Scrivere necrologi, com’è noto, è la cosa più falsa e più stupida che si possa immaginare.

Cronologia

Chanche, di professione giardiniere, bastardo raccolto da un Vecchio, alla morte di questi, viene buttato fuori dalla casa nella quale ha sempre vissuto, avendo, come unica esperienza del mondo, una pressoché totale conoscenza dei programmi televisivi. Appena fuori viene fortuitamente investito, raccolto e portato a casa dalla moglie di un esponente dell’alta finanza. Il suo nome sarà allora Chauncey Gardiner ed entrerà a tal punto nelle grazie dei suoi soccorritori da poter presenziare alla visita del Presidente. È così che, mentre quest’ultimo parla di economia, Chanche parla di giardinaggio (l’unica cosa che conosca), ma convincente a tal punto da far passare innocentemente il suo discorso come metafora. Capita allora che il Presidente lo citi in un discorso e l’attenzione di tutti i mass media si concentri su quest’uomo così saggio, ma anche assolutamente senza passato. A un giornalista Chance ammette candidamente di non saper né leggere, né scrivere. Ma anche questa viene scambiata per una boutade. La stessa MacLaine s’innamora di lui, ma ovviamente la televisione non l’ha reso edotto, in quanto a sesso, su null’altro oltre al bacio. Ma anche quel comico, assurdo «Cosa ti piace?», «Mi piace guardare», si risolverà all’opposto in una conquista totale della donna: «Tu sei diverso dagli altri. Solo con te mi sono sentita una vera donna». Muore il Vecchio e gli ambienti economici sembrano suggerire il nome di Chance (anzi di Chauncey) per prenderne il posto, se non addirittura quello del Presidente. Lui intanto s’allontana dalla barca e, da solo, s’incammina sul laghetto. Si ferma un attimo in campo lungo, infila l’ombrello nell’acqua, ma questo affonda in tutta la sua lunghezza. Non sarà l’ultima immagine cinematografica di Peter Sellers. È comunque bella.

I vestiti dell’imperatore

Il richiamo a Shakespeare, ancorché autorizzato e inaugurato dallo stesso Kosinski, è ovviamente uno dei tanti riferimenti possibili (così come Kosinski, del resto, è uno dei tanto nomi di finzione da utilizzare arbitrariamente come origine fittizia del testo). E come tale va preso, a patto che non si tenda a forzarlo e a circuirlo così da dedurre univocamente un significato politico inequivoco e paradossale. Assunta da Shakespeare l’analogia tra il giardiniere e il governante, Oltre il giardino non sarebbe altro se non la parafrasi dell’ascesa al trono del “perfetto imbecille”, di colui che, in virtù di una misconosciuta ignoranza, trionfa sui sapienti e sui detentori di un sapere vuoto.

Tutto esattamente e perfettamente vero, se non fosse per il fatto che Being There è invece il dramma del fraintendimento, è lo spazio del godimento che si apre allorquando assistiamo al trionfo dell’ambiguità o meglio alla perversione pervicace e incessante di ogni frase. Chance parla di alberi e di rami, il Presidente, i giornalisti e le televisioni ascoltano e pensano all’industria e all’economia americana. Chance ammette di non saper né leggere, né scrivere e gli intervistatori assumono la dichiarazione come manifestazione di una impareggiabile e inaudita spregiudicatezza. È un’ossessione alla metafora o una ripulsa istintive contro la semplicità, in fondo, a spingere tutti i personaggi a una costante stortura delle dichiarazioni di Chance e quindi, di fronte allo sciocco, passare per sciocchi.

Ancora una volta è la storia dei vestiti dell’imperatore. Solo lo sciocco sa che il re è nudo e solo in quanto è sciocco può dirlo, solo in quanto è niente. «I'm the fool, Thou art nothing». E che per dire la verità deve continuamente rovesciare in paradosso ciò che appare. Solo l’incoscienza di ciò che fa o che dice lo sottrae alla minuziosa e superflua astuzia di dover enunciare la Verità.

Poco importa, in effetti, che il re sia realmente nudo: ciò che importa invece è che si lasci così infantilmente attraversare e sconfiggere da lui. È così che Chance finisce per funzionare non tanto da catalizzatore semplice, quanto da vero e proprio buco nero che attira e travolge le falle dell’ordine sociale. È proprio questo niente, questo vuoto, troppo insopportabilmente ignorante, che intriga e seduce.

Siano rese grazie allora a Kosinski, e per traverso ad Ashby, per aver evitato di menzionare la follia, che sarebbe stata comunque esorcizzata, per enunciare The Chance, il Caso, piuttosto, l’eventualità, l’imprevisto capace di scompaginare con forza irrisoria la meticolosa e indeformabile organizzazione dell’esistente.

Il ladro in flagrante

Infine, Oltre il giardino (sia pure detto in termini arcaici) sarebbe una denuncia contro la progressiva e sempre più pesante dipendenza nel confronti della televisione. Il che è vero solo in parte. Anche perché, in questo caso, non si capisce come possa essere proprio il soggetto alienato a fare anche la parte del Candide. Cade qui opportuno ricordare come il richiamo a Frank Capra sia soltanto marginale. Chance non solo non è portatore di buone novelle, ma tanto meno può essere preso come simbolo di una verginale e genuina realtà; come portatore di valori naturali e non alienati. La televisione è certamente presente nel film, ma piuttosto che esservi demologizzata, viene semplicemente derisa.

Puntare lo sguardo, insomma, sulle modalità della visione proprio di fronte a coloro che in quel momento stanno guardando, è un po’ come parlare di corda in casa dell’impiccato. Quando Chance, nel rifiutare le avances di Shirley MacLaine, dice «A me piace guardare», lo spettatore, rassicurato nella sua illusione narcisistica di latin-lover oltre che di estraneo alla trama, ride come se si trattasse di un’assurdità. E non si accorge, o finge, che questo «A me piace guardare» è esattamente ciò che lui sta mettendo in atto come (anche qui l’espressione è un po' desueta) “esperienza vicaria”, sostitutiva di qualcos’altro. Sembrerà una cosa da nulla, ma è come cogliere il ladro in flagrante.

L’uomo caduto sulla Terra

E poi un nome bisognerà pure darglielo a questo scherzo della natura, a questo uomo senza storia e senza qualità. È così che, dopo tutto, Oltre il giardino è anche il problema della proprietà del nome. È chiaro, d’altronde, che nella quadrettatura operata sul reale dell’ossessione alla tassonomia, affinché ogni cosa abbia (sia) un solo e ben preciso Nome, non è in ogni caso ammissibile un uomo senza passato. Sono estremamente rivelatrici, in questo senso, le apprensioni del Presidente (nel film), ma anche dell’Ambasciatore Sovietico (nel libro). L'Unheimlich che inevitabilmente quest’uomo caduto sulla Terra produce non può non lasciare tracce, rivelare cadaveri, scoprire scheletri. Ma il nome è condizione imprescindibile: senza nomi propri non c'è salvezza. Quindi non più Chance (caso, eventualità), ma Chauncey e come patronimico quello che, classicamente inerisce al mestiere ovvero il giardiniere (the gardiner) sarà Gardiner. «“Chauncey Gardiner”, ripeté lei. Chance notò che gli aveva cambiato il nome. Ne dedusse che, come alla tv, d'ora in poi avrebbe dovuto usare il nome nuovo».

«Mr. Klein, I suppose»

Trascurando ogni altra banalità psicanalitica che pure le varie Morti dei Padri o gli Stadi dello Specchio suggerirebbero, un’ultima, sia pure scontata, analogia col sogno andrà proposta. È tipico del sogno e del cinema il trovarsi (del personaggio, ma anche dello spettatore e del dormiente) in una situazione di disperante estraneità, in un paese del tutto straniero, chiamati a compiere oscuri tentativi per conquistare la salvezza (della vita, ma anche del piacere e del sonno) in un Intrigo che, anche se spesso non è Internazionale, è comunque sufficiente a mettere in causa, spostare, lacerare la posizione del soggetto.

Nel nostro caso, però, le cose si scindono. Mentre Chance latita effettivamente in un vacuum che ha una dimensione di troppo per assomigliare allo schermo televisivo, lo spettatore viene alternativamente cullato tra la posizione dell’ingenuo incurante (Chance) e quella dell’accorto truffato (gli intervistatori, ma anche il Presidente), assaporando del fraintendimento e dell’ambiguità entrambi i versanti senza sapere mai cosa scegliere. D’altra parte ciò che qui conta non è sapere se effettivamente il taglio dei rami secchi possa essere funzionale a un rilancio dell’economia americana (e in questo senso il riferimento solo referenziale alla politica è del tutto fuori luogo). Ciò che conta è capire per quale imperscrutabile Caso, questo Chance possa frodare tanti e tanti investigatori.

È probabile che sia proprio in quel doppio e simmetrico movimento che narcisisticamente culla lo spettatore, che trova origine l’illusione di poter essere contemporaneamente truffatori e truffati, imbroglioni e vittime. Ma così come per Monsieur Klein, innocentemente sedotto da una finzione (quella del cabaret) a pensare di poter essere allo stesso tempo semita e antisemita, anche per lo spettatore di Oltre il giardino la sorte finale non sarà meno plumbea. Nel grigio di un lago Chance cammina sull’acqua, ma il suo ombrello, a qualche centimetro dai piedi, affonda inesorabilmente. Il truffatore innocente (Chance) ha candidamente frodato per circa due ore gli astuti ma cristallini spettatori. Partono per Auschwitz, escono dal cinema e non sanno neppure spiegarsi il perché.