Il capolavoro di Lynch raccontato da Emanuela Martini

The Elephant Man di David Lynch

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Tra horror e melodramma 

Candidato a otto Oscar ma tagliato fuori dalle assegnazioni, The Elephant Man è senza dubbio un film ambiguo, traballante e indeciso; mescola temi e spunti in una successione macchinosa, senza riuscire a trovare la composizione ottimale; sembra (e, molto probabilmente, è) un prodotto confezionato appositamente per piacere al grande pubblico (e quindi agli Oscar), dai cui ingranaggi tuttavia è venuto a mancare qualche elemento essenziale. O, forse, la sua è una debolezza per eccesso: troppi personaggi, troppi risvolti psicologici, troppi soldi. Nel maggio del 1981 ne scrisse Emanuela Martini su Cineforum n. 204 che potete acquistare qui

Viene in mente che, se Elephant Man fosse stato un sottostimato horror di serie B, con meno pretese filosofiche-spettacolari, ma coordinato da una mano più sicura e lucida di quella di David Lynch, avrebbe guadagnato molto in coerenza, omogeneità e (perché no?) divertimento; del pubblico, naturalmente, che qui invece è continuamente sballottato tra lo spavento e il pianto, confuso e incerto nelle propone istintive e più elementari identificazioni emotive. Peccato, perché al film non mancano intuizioni brillanti e originali e punti di forza spettacolari, che risultano purtroppo sperduti nel marasma di una confezione troppo pretenziosa.

La storia di John Merrick, detto «l'uomo elefante», ispirata a uno dei casi più raccapriccianti di deformità fisica di cui si sia a conoscenza (e poco importa, tutto sommato, che la causa della deformità sia una vera malattia, la neurofibrosi multipla, anche oggi quasi incurabile), sta racchiusa, come ogni storia cinematografica di mostruosità, tra la creazione e la morte, riprodotte sotto forma di «Visioni» allucinate e fantastiche: molto bella, barocca e giustamente tormentata e ambigua la prima, nella quale si intrecciano senza soluzione di continuità inconscio, fiaba e arcani, banale e declamatoria la seconda, perché ricompone in una dimensione di pietismo mistico una storia che pietosa non è e che poteva essere risolta, se mai, nel senso di una dolorosa e rabbiosa autoaffermazione. Le due «Visioni» riassumono il difficoltoso oscillamento della narrazione: da un lato tutte le suggestioni dell'horror gotico con le connesse implicazioni psicanalitiche, sociali, scientifiche; dall'altro, la successione narrativa di stampo melodrammatico e sentimentale, che tende a una compiaciuta umanizzazione di tutta la vicenda, a riportare qualsiasi accenno di dilatazione metaforica ai livelli concreti e bottegai di una qualsiasi vita privata».

Non è che horror e melodramma siano incompatibili, anche se il primo, nelle sue vesti cinematografiche, è generalmente contraddistinto da una freddezza e da un controllo narrativi atti a contenere tutte le emozioni tranne la paura. In campo letterario, invece, la più ricca e omogenea fioritura del genere è quella «gotica», nella quale orrori e mostri intrecciano le proprie vicende con gli umori romantici e passionali del secolo, assurgendo a statura eroica, anche se negativa. È naturale che il cinema, arte principalmente ottica e, quindi, necessariamente più discreta, abbia rarefatto quello che la pagina urlava; il cinema ha colori, composizioni figurative e successioni di piani in grado di far intendere molto di più di quanto non sia detto; un primo piano di una vittima di Dracula, una scelta cromatica nel castello di Frankenstein, gli arredi della casa di Jekyll offrono, a colpo d'occhio, la sintesi di una passione e dei suoi sviluppi. Ricominciare a far parlare i protagonisti delle vicende gotiche, senza modificarne l'iconografia, non può che rivelarsi controproducente; e, infatti, mentre la verbosità impacciata di John Merrick lo rende veramente baracconesco, togliendogli la dignità misteriosa che il silenzio gli conferiva, la confessione dei tormentosi dubbi da scienziato riduce il dottor Treves a una figurina moralistica da comprimario: non Frankenstein, ma il suo tutore l'aiutante perbenista e noioso, non Jekyll, ma i suoi amici intransigenti.

Viene cosi a mancare nel film la figura eroica, il grande protagonista comune all'orrore e al melo indipendentemente dalla diversità delle rispettive funzioni (anche se, tutto sommato, prototipi come quelli del «bel tenebroso» o della «maliarda» non distano poi tanto dal Monaco o da CarmiIla); vengono a mancare le esplosioni emotive, sostituite da una pietà pelosa; e, nel continuo rimbalzo tra figure minori, sembra scoppiata la fiera della bontà; i «cattivi», certo, ci sono, ma senza progressioni o sfumature, proletari avvinazzati e avidi di denaro, nobili imbarazzati e avidi di emozioni (i primi, va sottolineato, molto più ostinatamente cattivi dei secondi); ed è inutile aspettarsi fino alla fine sviluppi stimolanti da parte del laido mercante Bytes (che, pure, nelle prime sequenze aveva fatto presupporre l'esistenza di un rapporto più articolato e complesso con il suo «mostro») o da parte del sorriso sornione di John Gielgud.

Certo, il vero, disgraziatissimo John Merrick aveva tutte le ragioni per volere a tutti i costi essere accettato dall'universo di ipocrita raffinatezza che lo aveva sfiorato; ma dal John Merrick della finzione filmica ci saremmo aspettati un po' più di combattività, più domande, rifiuti, o, almeno, amarezza e dolore pari a quelli che il vero uomo elefante deve aver provato. D'altra parte, dalla società in cui John Merrick vive non ci aspettavamo certo tanta compiacenza, anche se tardiva e in larga misura indotta da umanitarismo bigotto, da conformismo e da eccentricità di gruppo; certo, gli applausi finali a John Merrick sul palco sono cedi scena, presumibilmente passeggeri e insinceri, ma gli permettono di morire lusingato e «normale»; un po' una beffa alla dignità dell'uomo elefante e, certamente, un gran bel regalo alla società vittoriana.

La glorificazione generale potrebbe essere accettabile, anche se non condivisibile, se fosse linearmente perseguita nel corso di tutto il film; in realtà invece la successione delle immagini propone spunti di marca diversa, inquietudini, soprassalti, rimandi espliciti che hanno poco da spartire con la pacificazione finale. L'incubo della gestazione e della nascita, la passeggiata attenta, cinica e curiosa del dottor Treves tra i baracconi, la maestà stracciona delle prime apparizioni dell'uomo-elefante e l'agghiacciante essenzialità della sua ombra nella sala di anatomia, gli stessi ingenui e ridicoli pavoneggiamenti di John Merrick dandy, lo sguardo spesso colpevole e il costante, palpabile imbarazzo del dottor Treves di fronte alla sua creatura» (e va sottolineata la bravura di entrambi gli interpreti) portano diritto a due storie di disperazione, rivolta e ambizione. Hanno il marchio figurativo di Browning (ben citato nella iniziale esposizione dei freaks, ma totalmente distorto nella sequenza della fuga dalla Francia) e, soprattutto, di Fisher, un Fisher in bianco e nero, ma alquanto pastoso e sovraccarico. Come in Fisher esiste qui la contraddittorietà della società vittoriana, oscillante tra rigore perbenista e tradizionale e dinamismo industriale; ma, mentre Fisher segue la convenzione narrativa e distrugge il mostro disturbatore (sia esso il sesso, la conoscenza o il progresso), David Lynch, come si è detto, salva (e così svilisce, banalizza) tutti.

La fisicità intravista

Lo straordinario Freddie Francis, qui direttore della fotografia (e probabilmente è proprio lui il «bastian contrario» del film, quello che sa creare le immagini suggestive e ambigue, quello che sa raffigurare i mostri) riesce a sottrarre al controllo appiattente di Lynch alcune immagini, quasi dei piani di inserto, quasi inspiegabili nella loro insistenza, pezzo di un mosaico di ossessioni e disperazione che, per strada, si è trasformato in una parabola conciliante. Sono le macchine, i tubi, le turbine, rumorose e incombenti, che parlano di creazione, di fine di un'epoca, di incubi meccanici, industriali e di classe; al teatro succede il cinema, cambiano gli oggetti dell'esibizione, la morbosità gotica dall'oscura intimità dei salotti e delle fiere porterà le proprie figurazioni alla fisicità incombente dello schermo. La fisicità, appunto, trapela dalle più belle immagini del film come la possibile e purtroppo tralasciata chiave espressiva e fa intuire quello che la storia dell'uomo-elefante sarebbe potuta diventare in altre mani: una parabola esemplare dell'intolleranza. Facendosi manifesto esplicito della dignità umana, ma recuperando per le strade tortuose della pietà una razza che riconosce i propri appartenenti solo sulla scorta dell'esteriorità e che vive in funzione degli apparati, della mondanità e dell'esibizionismo imitativo, il film si nega al coraggio della differenza, dello snobismo solitario, della follia altezzosa. Non dimentichiamo che, negli stessi anni in cui John Merrick moriva in pace, la stessa società londinese processava, condannava e praticamente uccideva un altro «mostro», tagliente, raffinato, non conciliante, omosessuale: Oscar Wilde.