In sala il restauro

Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci

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Dopo la presentazione in anteprima mondiale al Bif&st – Bari International Film Festival, arriva in sala in questi giorni, la versione restaurata di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Il restauro è stato realizzato da CSC-Cineteca Nazionale in collaborazione con Grimaldi Film Productions e Metro-Goldwyn-Mayer Studios, con la supervisione di Vittorio Storaro (per l’immagine) e di Federico Savina (per il suono). 
Siamo andati allora in archivio e abbiamo ritrovato questo interessantissimo articolo scritto dall'allora direttore Sandro Zambetti, quindici anni dopo la realizzazione del film, al tempo cioè della sua "riabilitazione". Un vero e proprio tuffo nel tempo, politico, sociale e cinematografico. Lo speciale composto dal pezzo di Sandro Zambetti e dalla scheda di Roberto Escobar la trovi sul numero 262, di marzo 1987; mentre sul numero 151 la recensione all'epoca dell'uscita. Tutti gli arretrati di Cineforum sono disponibili su Cinebuy.

Il tango delle censure dimenticate

E così, Ultimo tango a Parigi ha potuto fare la sua riapparizione sugli schermi, a undici anni di distanza dalla sentenza «definitiva» che ne aveva decretato la messa al rogo. C'è da essere lieti, ovviamente, del fatto che qualche copia del film sia scampata chissà come alle fiamme purificatrici cui erano tutte destinate e che gli spettatori ai quali non era stata data allora la possibilità - per una ragione o per l'altra, ivi compresa quella dell'età - di vedere il film di Bertolucci siano posti oggi in grado di decidere per proprio conto se correre o meno il rischio di uscire sconvolti dalla scoperta del singolare uso che si può fare del burro, in determinate circostanze.

Ma c'è anche di che immalinconirsi, quantomeno, di fronte alla riprova offerta da questo episodio in materia di stagnazione della nostra vita politica o, se si preferisce, di esclusione dalla medesima di tutti quei problemi, e relative tensioni, che non abbiano alle spalle interessi pratici, immediatamente collegabili a prospettive di profitto economico o di rendita elettorale. Malinconica, soprattutto, la più semplice e la più ovvia - ma che non molti hanno fatto - delle constatazioni: se Ultimo tango, cioè, può oggi essere visto, non è perché sia stato riconosciuto ai cittadini adulti e vaccinati il diritto di giudicarlo da sé, di essere responsabili delle proprie scelte di spettatori, ma, al contrario, perché qualcun altro, una volta di più, ha giudicato per loro, ravvisando la presenza «redentrice» dell'arte là dove altri giudici avevano visto solo oscenità. Tante grazie, insomma, ai cinque “esperti” che sono riusciti a porre in evidenza l'artisticità del film ed ai magistrati che hanno tenuto conto del loro parere, ma resta stabilito che gli italiani sono tutti dei minorenni dalle capacità di discernimento assai limitate e bisognosi pertanto della protezione che può venirgli solo da chi sta in cattedra. La classica vittoria di Pirro, dunque, in quella che un tempo si chiamava la battaglia per la libertà d'espressione, da una parte, e per la libertà di scelta, dall'altra. E il triste è, appunto, che ben pochi l'abbiano vista come tale e che la faccenda sia passata via liscia, con qualche notazione di colore sul «come eravamo» e niente di più, senza alcun moto di reazione a questo ennesimo atto di tutela non richiesta.

Vero è, in effetti, che l'indifferenza diffusa nei riguardi dell’«avvenimento» depone a favore di un processo di crescita civile ben più profondo della sensibilità della classe politica italiana al riguardo. Quindici anni fa', Ultimo tango ebbe il successo di cassetta che tutti ricordiamo per motivi non certo interamente riconducibili all’interesse per il film in sé: la corsa tumultuosa al botteghino, cioè, fu in buona parte determinata dal proposito di battere sul tempo le temute decisioni della magistratura, di non lasciarsi sfuggire una materia a cui il procedimento giudiziario in corso conferiva comunque il fascino del proibito. Oggi il film tiene ancora bene, quanto ad affluenza di pubblico, ma dello scandalismo di allora non c'è più traccia: tacciono, fra l'altro, anche coloro che nel '72 tuonavano in nome della morale offesa e nessuno è più in grado di farne un «caso» clamoroso. Che ciò avvenga per l'obiettiva difficoltà di far riesplodere uno «scandalo» già tutto consumato a suo tempo, è spiegazione senz’altro fondata, ma non esauriente, visto che c'è pure di mezzo una generazione - arrivata nel frattempo non solo a diventare pubblico cinematografico, ma anche ad aver voce sui giornali e alla tv - per la quale gli strepiti di quegli anni sono pura archeologia sonora.

Le tranquille accoglienze odierne a Ultimo tango, insomma, evidenziano una serie di cambiamenti dei quali sarebbe anche ora di tener conto. Macroscopico, tanto da non dover essere neanche sottolineato, quello del «comune sentimento del pudore», che condanna all' anacronismo, in tempi sempre più brevi, ogni intervento a sua pretesa tutela. Ma ancor più significative, a nostro parere, le mutate reazioni del pubblico alle pressioni di cui è fatto oggetto. La marea montante degli investimenti pubblicitari e il trionfo degli indici d'ascolto (attenzione, però: da ultimissimi dati Auditel risulta che nelle ore di maggior ascolto – dalle 20,30 alle 23 - il 52,8 per cento degli italiani adulti non guarda la tv) come unico metro valido per la progettazione dell'offerta, sembrerebbero dimostrare il contrario. Eppure, proprio la vicenda di cui ci stiamo occupando lascia intravvedere qualcosa di diverso, una maggior maturità e padronanza critica o, quantomeno, un atteggiamento più smaliziato, più diffidente. Non sarà molto, e le strategie pubblicitarie non mancheranno di fare il possibile per cancellare anche quel poco, ma le rimonte non sono facili per nessuno.

Rimarchiamo questo dato di fatto, perché nessuno è mai riuscito a toglierei il dubbio che negli schieramenti anticensori facessero capolino posizioni ambigue e frenanti. In campo cinematografico, per intenderei, un sequestro poteva anche fare pubblicitariamente comodo, una volta presa la precauzione di fare uscire il film in prima visione là dove il magistrato a cui sarebbe poi toccato giudicarlo era noto per le sue idee liberali. Il fatto che giochetti del genere minacciano ora - per le ragioni di cui sopra - di non valere più la candela, giova senz'altro alla chiarezza del discorso e può forse favorirne, finalmente, approdi concreti.

Ci sembra giunto il momento, in parole povere, di riprendere decisamente la battaglia contro ogni forma di censura. Contro quella giudiziaria, senz'altro, ma anche contro quella amministrativa, per ininfluente - ma così non è, come diremo fra breve - che possa apparire. Depenalizzazione dell'osceno, dunque, in termini di riconoscimento del diritto di ogni persona adulta a giudicare in proposito da sé, prima ancora che di presa d'atto dell'inconsistenza di un punto di riferimento quale il «comune sentimento del pudore», stante la sua sempre più rapida evoluzione. È un obiettivo fondamentale e irrinunciabile, sia chiaro. E non togliamo niente all'impegno con cui riteniamo che debba essere perseguito, se diciamo che non ci sembra il caso di nutrire molte illusioni al riguardo. Chi scrive la presente nota avanzò la stessa osservazione anche quattro anni fa', al convegno del Sindacato Critici a Lignano Sabbiadoro, sostenendo la necessità di non dare per secondaria la battaglia contro la censura amministrativa: col solo risultato di esser fatto passare per quello che si attarda inscaramucce di retroguardia. Eravamo agli esordi del pentapartito a presidenza socialista, si nutriva molta fiducia nella parola d'ordine della «decisionalità» e non mancavano le assicurazioni ufficiose su un possibile, rapido ritocco al codice penale, che avrebbe tagliato la testa al toro. Siamo ancora qui ad attenderlo, quel ritocco, e oggi, con le diatribe pentapartitiche in atto e il nodo della giustizia in primo piano fra le cause delle medesime, il traguardo che si diceva tanto vicino non può non apparire più lontano che mai. Il che non significa, ripetiamo, che vi si debba rinunciare, ma, semplicemente, che le battaglie di retroguardia con qualche prospettiva di successo possono essere un po' più utili delle fughe in avanti, e comunque non si spreca tempo nel combatterle.

Rieccoci, allora, alla censura amminitrativa. Un ferrovecchio che non serve più a niente e di cui tutti i partiti dicono di volersi e potersi sbarazzare in qualsiasi momento, senza traumi per nessuno, basta trovar due minuti di tempo per provvedere alla bisogna. E per il  teatro, in effetti, è andata abbastanza così. Per il  cinema, invece, quei due minuti, a quanto pare, non si trovano mai. Sarà perché le imprese troppo facili non rendono molto, politicamente, o perché la facilità è solo apparente, in questo caso, ma sta di fatto che sull'argomento, da vari anni a questa parte, è calato il più concorde e assoluto silenzio. Vogliamo riprenderlo? Vogliamo chiederci se è proprio vero che la censura amministrativa non serve più a niente, non fa più guasti?

A nostro sommesso parere, le cose stanno un po' diversamente. In primo luogo, perché la censura amministrativa, tutto sommato, non ha mai prodotto grossi danni, neanche in passato, a cose fatte e visibili. La sua funzione frenante e mortificante, per l'intelligenza, l'ha sempre svolta principalmente in fase preventiva, scoraggiando progetti «rischiosi», facendo balenare possibili strette nei finanziamenti pubblici, innescando complessi di autocensura e coltivando accuratamente le disponibilità al compromesso. Tutto ciò per il solo fatto che c’era, che era parte integrante e inamovibile, per quanto poco vistosa, del Palazzo. Dato che c’è ancora, e sempre nello stesso posto, andremmo piano nel giudicarla inoffensiva, solo perché ha rinunciato a quel sovrappiù che erano i suoi veti palesi. C'è poi, in secondo - ma non tanto secondario - luogo, l'ingombro talvolta rovinoso che le sue procedure costituiscono, in pratica, per la libera circolazione del film. Certo, i «grandi» non ne risentono affatto, ma per i «piccoli » la cosa ha un peso tutt'altro che trascurabile, in termini di copie inutilmente - e insostenibilmente, per certi bilanci - sacrificate nel deposito d'obbligo presso gli uffici di censura e in termini di attese del visto che non di rado pregiudicano la possibilità di afferrare i già scarsi e fugaci spiragli che si aprono, nelle programmazioni, per i film di un certo tipo.

D'accordo, per l'industria italiana in generale il «piccolo è bello», che era di moda fino a qualche tempo fa', sembra aver perso gran parte della sua suggestiva risonanza, ma in campo cinematografico resta ancor oggi vero che la validità culturale delle proposte è spesso inversamente proporzionale alla «grandezza» di chi le fa. L'ex critico cinematografico dell'Umanità, Paolo Pillitteri, prima di lasciare lo scranno di Montecitorio per la poltrona di Sindaco di Milano, ha presentato una proposta di legge intesa a rendere meno rugginose le norme sulla partecipazione dei minori a riprese cinematografiche, e si è premurato di farcene avere copia. Gliene siamo grati e riconosciamo senz'altro l'importanza di un provvedimento del genere, in previsione dei tempi di spielberghismo produttivo che potrebbero presto correre (con l'aiuto di Sandra Milo e dei suoi «piccoli fans») anche dalle nostre parti. Non è il caso, però, di far qualcosa per garantire maggior scioltezza di movimenti anche ai maggiorenni che lavorano per un cinema migliore?