Wajda e l'intensa giovinezza del cinema polacco

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Per ricordare Andrzej Wajda, morto ieri a 90 anni, abbiamo recuperato dagli archivi un pezzo che Bruno Fornara scrisse in occasione della retrospettiva sul nuovo cinema polacco al Cinema Giovani di Torino del 1988. Ne riproponiamo alcuni frammenti, in cui si parla di Wajda, Skolimovski, Polanski, Munk, della scuola di Łódź, di nouvelle vague europee, di sguardi sulla storia nazionale polacca e di graduale, provocatoria scoperta del reale.
Cineforum 279, novembre 1988, pp. 10-22. 


Nel 1959, quando l’aria delle nouvelle vague aveva da poco cominciato ad alzarsi, in un convegno veneziano presieduto da Rossellini, Andrzej Wajda prese decisamente le distanze dal nuovo cinema, caratterizzato a suo parere da una troppo marcata insistenza sui problemi della situazione produttiva e da una evidente disattenzione per i temi e i contenuti: «Questo dibattilo è come il mondo in un altro pianeta. Nessuno si interessa al soggetto, che è la vita o la morte del cinema. Noto con grande sorpresa che tutto quello che i giovani francesi sono riusciti a dire è la loro lotta contro i produttori. Comprendo che non viviamo più in un’epoca di manifesti ma non c’è mai stato un congresso artistico di questo genere. Questo mi sembra un convegno di scrittori che cercano una tipografia».

Eppure, l’anno seguente, è lo stesso Wajda con Ingenui perversi, insieme al Morgerstern di Arrivederci domani e al Kutz di Nessuno chiama, a imporre al cinema polacco una svolta proprio nella direzione del nuovo cinema. C’è nel cinema polacco del quindicennio gomulkiano (1956-1970) una irrisolta, positiva tensione tra il volgersi indietro, alla Polonia, alla sua storia, ai suoi drammi, e il guardare alla realtà contemporanea; tra l’abbandonarsi all’eterna meditazione sulle proprie sconfitte e il volersene sbarazzare, voltando finalmente pagina; tra il continuare a utilizzare modelli di strutture espositive e di messinscena legati a una impostazione drammaturgicamente e letterariamente corposa, e il disfarsi, anche sul piano linguistico e narrativo, di tutte le regole per sperimentare liberamente nuovi modi di fare cinema.

Wajda esprime, nel 1959, diffidenza nei confronti delle nouvelle vague e insiste sulla supremazia del soggetto, del nucleo drammatico e tematico che è «vita o morte» del cinema. La posizione, apparentemente frenante rispetto alle rotture praticate dal nuovo cinema, è strettamente collegata alla particolarità della situazione polacca, al muoversi in avanti di una cinematografia che, pur trattenuta dal compito di affrontare, indagare e rivoltare un passato ingombrante e tragico, ha già saputo trovare, fin dalla metà degli anni Cinquanta, una sua strada, un suo originale modo d’essere.



La cosiddetta scuola polacca, con Wajda, Munk e Has, la battaglia contro il cinema dei papà del realismo socialista ha già cominciato a combatterla da qualche anno, ma il suo lavoro difficile, innovativo e sperimentatore incrocia solo in parte i sentieri del nuovo cinema. […] Dalla svolta del 1956 fino alla sostituzione nel 1970 di Gomulka con Gierek, il percorso del cinema polacco è insolitamente intenso e spesso anticipatore. Con le aperture gomulkiane, la pochezza e lo schematismo del cinema dell’epoca staliniana vengono superati in due direzioni. La prima è quella indicata dai film della scuola polacca. I dannati di Varsavia di Wajda e Un uomo sui binari di Munk, entrambi del 1956, entrambi sceneggiati da Jerzy Stefan Stawinski, con toni epico-romantici il primo, ragionati e realistici il secondo, danno il via a una tormentata ricerca sul passato e sull’identità nazionale.

Wajda, negli ultimi giorni della insurrezione di Varsavia contro i nazisti, vede riassunta la drammaticità di una lotta senza speranza eppure obbligata, doverosa. Il barocchismo e l’esibizionismo di tutte le immagini spostano il baricentro del film da una impossibile epicità verso una tragicità eccessiva, già minata così dall’incertezza. Anche Un uomo sui binari è un film del dubbio. La ricostruzione dell’incidente di cui è stato vittima un vecchio macchinista ferroviere, burbero e rigidissimo, porta ad intravvedere dietro alla verità ufficiale il buio degli anni staliniani. La richiesta di trasparenza che nel 1955-56 scuote la Polonia viene dunque fatta propria da Munk e da Wajda e la scuola polacca nasce sotto il segno della revisione del passato.

Ma se questa sarà la direzione dominante, in quello stesso 1956, i documentari della «Serie nera» e il film La fine della notte si buttano con decisione dentro la realtà contemporanea, oltre e contro l’ufficialità, alla scoperta di fenomeni che per il potere non sono mai esistiti. […] La fine della notte, realizzato collettivamente da un gruppo di allievi della scuola di cinema di Łódź, storia di una banda di giovani insoddisfatti e sradicati, rappresenta quasi un embrionale punto di partenza del nuovo cinema in Polonia. Tra gli attori figurano Zbigniew Cybulski e Roman Polanski. Al lavoro di sceneggiatura partecipa, tra i tanti, lo scrittore ventenne Marek Hlasko che, ricorda Polanski, era un «ribelle nato, rissoso, dotato di straordinario fascino, amava raccontare le sue passate esperienze di camionista e si atteggiava a rude proletario». Quello che diventerà nei film di Polanski e Skolimowski il segno distintivo del nuovo cinema, il definitivo distacco dalla storia e dal potere, qui ha il carattere di un ribellismo alla James Dean. Arrestato e portato al commissariato, Polanski, chiamato «piccolo» nel film, al poliziotto che gli chiede se è mai stato fermato prima, risponde: «Non mi hanno mai fermato e non mi fermeranno mai». E Cybulski, poco oltre: «Che bella parola: fuggito». Era troppo presto perché la virulenza con cui i documentaristi e gli allievi della scuola di Łódź attaccavano la realtà potesse trovare spazi d’espressione stabili e accettati.

Prima, i registi della scuola polacca dovevano ancora regolare i conti con la storia, la guerra, gli anni dell’eroismo e, poi, del buio. Le due direzioni, comunque, più frequentata quella della revisione del passato e l’altra più ardua, della scoperta del reale e del presente, sono già fin dal 1956 indicate chiaramente. E di lì a poco, nel 1960, avrebbero finito per incrociarsi […].



Sono i film della scuola polacca ad aprile la strada al nuovo cinema, ad anticiparne spesso temi e toni, come nel ribaltamento ironico e smitizzante cui Munk sottopone, in Eroica (1957, sceneggiatura di Stavinsky) il modo di guardare alla guerra e alla resistenza, con l’eliminazione di ogni aura del motivo romantico dell’eroismo inutile; o con la comica, spesso farsesca cavalcata a passo di carica attraverso la storia polacca da prima della guerra fino allo stalinsimo, del Munk di La fortuna strabica (1959, sempre sceneggiatura di Stavinsky), un gustoso pamphlet con al centro uno sfortunato e cocciuto uomo qualunque interprato da Bogumul Kobiela, che insiste a uniformarsi, con effetti disastrosi, a tutte le troppe svolte della storia; o ancora nel lucido percorso verso la disperazione e la sconfitta dentro una narrazione modernissima, fatta di accelerazioni, rallentamenti e zone d’ombra, del capolavoro wajdiano Cenere e diamanti (1958; con Cybulski e Kobiela); o infine nello sfrenato barocchismo e nell’artificialità manieristica al limite del kitsch con cui in Lorna (1959), sempre di Wajda, si svuota dal di dentro il sempiterno chiodo fisso dell’azione nobile e mortifera (le sciabole della cavalleria contro i carri armati tedeschi) […].

Quello che il nuovo cinema farà, nella sua furia iconoclasta, sarà il proseguire nella direzione dello smascheramento definitivo non più solo tematico ma anche linguistico. In mezzo, però, c’è ancora dell’altro, sicuramente meno conosciuto ma forse, oggi più significativo. Ci sono Nessuno chiama di Kazimierz Kutz, Arriverderci domani di Janusz Morgenstern e, a far da cerniera, Ingenui perversi di Wajda. […] La traduzione letterale del titolo originale, «Maghi perversi», chissà che non alluda proprio ai giovani leoni del nuovo cinema. Wajda, lasciato il tema delia guerra, si avvicina, anche lui, alla contemporaneità. Il film pare insieme la riaffermazione orgogliosa della superiorità della scuola polacca e al tempo stesso una specie di imprimatur, concesso a denti stretti, alle nuove tendenze; Skolimowski scrive la sceneggiatura, Komeda l’asciutto jazz della colonna sonora, in parti non centrali appaiono Cybuiski, Polanski, lo stesso Skolimowski. Sembra quasi che Wajda stia per cedere alla tentazione di cambiare strada nelle prime sequenze del film, molto da nouvelle vague, con quel risveglio nella stanzetta e i passaggi successivi sulla palestra, sulla boìte esageratamente esistenzialista, fino al vagabondaggio notturno. Ma poi il regista si ritrae e […]  si lancia in direzione opposta verso un virtuosistico cinema da camera dove il gioco del conoscersi e del nascondersi sconfina nel ridicolo e nell’umiliazione. Se il gioco, la fine della drammaticità, sia negli spunti tematici che nelle decisioni linguistiche, è una delle scelte portanti della corrente più leggera e francesizzante del nuovo cinema (non certo di Skolimowski), Wajda si incarica, questa giocosità, prima di mimarla, poi di minarla alla base. La sequenza dello strip-poker, giocato non con le carte ma con una scatoletta d i fiammiferi lanciata e rilanciata, somma alla perfezione cinismo e desiderio […].

Sia Nessuno chiama che Ingenui perversi vengono sottoposti a dure critiche. Il secondo è addirittura citato da Gomulka in un comitato centrale del partito come esempio negativo insieme a II coltello nell’acqua. Dopo la fase di apertura seguita al burrascoso 1956, cominciano ora le restrizioni contro il riformismo, inizia la fase detta della «piccola stabilizzazione». La consunzione dei temi della scuola polacca aveva portato alla ricerca di motivi con temporanei. Ma quasi subito i tentativi di fare cinema sull’oggi sono bloccati o circoscritti. Si torna allora a un passato più lontano, metaforicamente meno pericoloso e impegnativo.