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Scriveva Richard Matheson in I Am Legend (Io sono leggenda, 1954): «Robert Neville guardò il nuovo popolo della terra. Sapeva di non farne parte: sapeva che, come un tempo i vampiri, lui era un anatema e un nero terrore da distruggersi. E, di colpo, il concetto si formò, divertente nonostante il dolore. Una risata soffocata gli salì alla gola. Si voltò, si appoggiò alla parete, inghiottì le pillole. “Il cerchio si chiude” pensò mentre il letargo finale si impadroniva delle sue membra. “Il cerchio si chiude”. Un nuovo terrore nasce nella morte, una nuova superstizione penetra nell’inespugnabile fortezza dell’eternità. “Io sono diventato leggenda”».

Ecco, nell’apocalittico The Omega Man (1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, 1971) il regista Boris Sagal, con gli sceneggiatori John William e Joyce Hooper Corrington, attinge ex novo al romanzo di Matheson. La parabola tragica del sopravvissuto Neville passa di mano: dal Vincent Price de L’ultimo uomo sulla terra (1964) di Ubaldo Maria Ragona e Sidney Salkov a Charlton Heston, icona istituzionale di una Hollywood conservatrice e di una cultura a largo spettro armigera e reazionaria, il quale tuttavia in The Omega Man, pur non essendo esattamente un progressista o un hippy, si abbandona all’ennesima visione di Woodstock (Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, 1970) di Michael Wadleigh. E lo fa al buio, cosmico, oramai lunare; come "primo uomo" sulla Luna ci è arrivato, non resta quindi che sgombrare la Terra dalla quello che invece è “l’ultimo uomo”, la leggenda di se stesso. Al buio di una sala fatiscente, sfidando rischi e pericoli.

Neville conosce e ripete addirittura a memoria ogni battuta, non come ex partecipante dello storico concerto, ma come spettatore cinematografico d’eccezione, che data la concomitanza temporale (quel futuro prossimo venturo approssimato al 1975 nel prosaico e sciocco titolo italiano del film). Grazie alla pellicola che continua a scorrere e riattivare a tempo indeterminato le vestigia di un’umanità (quasi) estinta, il protagonista poteva sopravvivere psicologicamente. Neville, onomasticamente “nativo della nuova città”, rivede così i morti del 1969, l’anno chiave del concerto e dell’allunaggio, che rivivono per lui sullo schermo, come feticci di una vita passata, ma sempre presenti sul piano dell’illusione cosciente indotta dal cinema. L’illusione di una “nuova” era di speranze, scoperte planetarie e libertà, pace-amore-e-musica, ma già, nel fatidico 1975, volta al tramonto, vampirizzata dai morti viventi.