Incontro con il regista inglese, protagonista della retrospettiva Europe Now!

Intervista a Shane Meadows

focus top image


La Gran Bretagna degli skinheads, l’adolescenza, la musica e un nuovo lungometraggio da girare. Shane Meadows, protagonista della retrospettiva Europe Now! proposta dalla 34a edizione del Bergamo Film Meeting, ha conquistato il pubblico e ha approfondito alcuni temi del suo cinema libero e profondamente autobiografico.


This is England (2006) è il film che ti ha fatto conoscere alle platee internazionali, un vero e proprio instant cult. Hai saputo fotografare una generazione, ritraendo l’atmosfera di un’epoca vissuta in prima persona: gli anni Ottanta inglesi degli skinheads, della working class e della disoccupazione, gli anni della Thatcher e della guerra delle Falkland. Quanto di autobiografico c’è in questo film?

This is England è il mio film più autobiografico. Shaun, il ragazzino protagonista del film, è ispirato alla mia biografia: sono io. Proprio come Shaun, ho fatto parte degli skinheads. Inizialmente il movimento è nato come un gruppo pacifico che connetteva i ragazzini proletari bianchi con i giovani figli della working class nera, grazie alla musica reggae e ska. La storia degli skinheads è stata poi rimossa dalla memoria della Gran Bretagna in seguito alle derive razziste del movimento durante gli anni Ottanta. Quando ho iniziato a fare il regista mi sono accorto che la mia storia avrebbe potuto restituire lo spaccato di un’intera generazione. Per questi motivi ho deciso di raccontare la mia vita e la natura del movimento delle origini, affrontandone l’evoluzione problematica.

Anche in altri film, penso ad esempio A Room for Romeo Brass (1999) o a Somers Town (2008), viene messo in scena il conflitto tra generazioni, filtrato dallo sguardo di personaggi alla soglia dell’adolescenza. I tuoi adolescenti crescono in famiglie disfunzionali che finiscono per essere sostituite da un gruppo di amici. Perché questi temi ritornano nei tuoi film?


Credo che l’adolescenza sia un periodo della vita in cui accada qualcosa di fondamentale. In quel momento si è alla ricerca di modelli da seguire, e se si vive in un contesto dove gli esempi positivi scarseggiano può capitare di attribuire valore a persone pericolose o negative. Da ragazzino ero un delinquente, ho rischiato di mettermi nei guai più d’una volta. Come per Shaun in This is England, la mia è stata una reazione alle continue vessazioni che subivo a scuola. Non avevo modo di difendermi e ho trovato negli skinheads una “famiglia” in grado di infondermi sicurezza: il loro aspetto aggressivo – Doctor Martens ai piedi, teste rasate, tatuaggi – mi ha consentito di costruire una corazza a partire dal look. Essere uno skinhead voleva dire sentirsi protetto da un gruppo forte: se qualcuno avesse deciso di prendersela con me, avrebbe dovuto affrontare anche il resto del gruppo.

Un altro aspetto del tuo cinema è il sodalizio con gli attori. Alcuni interpreti sono letteralmente cresciuti all’interno delle tue immagini, di film in film: ad esempio, Andrew Shim e Thomas Turgoose (Milky e Shaun di This is England) o Paddy Considine (protagonista di numerosi corti, esordiente in A Room for Romeo Brass e poi protagonista di Dead Man’s Shoes - Cinque giorni di vendetta, 2004). Come lavori con gli attori? Perché il tuo cinema si affeziona ad alcuni volti?

Con gli attori creo una sorta di strana famiglia. Il mio set è una specie di “orfanotrofio” dove io e gli interpreti condividiamo esperienze. Amo lavorare con attori non professionisti e adoro crescere con loro, nel corso del tempo. Penso sia importante creare un senso di unità, di vicinanza con tutte le persone che prendono parte ai miei progetti. Per me è come fare film di famiglia. Prediligo i non professionisti perché hanno qualcosa in più: hanno una passione profonda, sono liberi da vincoli espressivi. Ed è questo che cerco per le mie storie. Loro crescono nei miei film e io con loro.

Scorrendo la tua filmografia si trovano formati eterogenei. Non hai lavorato solo a lungometraggi di finzione, ma il tuo cinema spazia dai cortometraggi, al documentario (The Living Room, 2015, The Stone Roses: Made of Stone, 2013) al mockumentary (Northern Soul, 2004, Le Donk & Scor-zay-zee, 2009) per approdare alla serie tv (This is England ’86, 2010, This is England ’88, 2011, e This is England ’90, 2015). Questo denota una grande duttilità produttiva. Che importanza ha sperimentare linguaggi differenti?



Non ho avuto una formazione convenzionale. Non ho studiato per fare il regista, quindi sperimentare mi viene naturale. Quando ho iniziato a lavorare non conoscevo le regole del fare cinema e ciò mi ha indotto ad abbandonare molte convenzioni. Spesso chi gira lungometraggi si allontana dal formato breve, ma nel mio caso il cortometraggio è come il taccuino degli schizzi per un pittore. Il corto mi permette di respirare senza pensare a vincoli produttivi, di ritrovare energia da sviluppare nei lungometraggi. Dunque è la storia a dettare le regole. È la materia che decide il formato. Non pongo vincoli. Per raccontare qualcosa può bastare un corto, per qualcos’altro devo ricorrere al lungometraggio. Uso i formati come differenti strumenti espressivi. Quest’assenza di regole mi fa sentire totalmente libero dal punto di vista creativo.

Vorrei affrontare un altro elemento centrale nei tuoi film: la musica. La colonna sonora, spesso con l’utilizzo di brani completi, non accompagna semplicemente le immagini, ma contribuisce a definire le atmosfere dei luoghi, interagisce con le vite dei protagonisti. Che funzione assume quindi la musica?

La musica ha sempre accompagnato la mia esistenza. In famiglia tutti ascoltavano musica ed è stato un passaggio naturale ricorrervi nei miei lavori. Se in un film c’è una buona ricerca sulla fotografia, se gli attori sono convincenti e se c’è un’ottima musica, chi guarda può davvero rimanere senza fiato. Così la musica di Ludovico Einaudi in This is England è in grado di esprimere le emozioni di un giovanissimo skinhead. Chi l’avrebbe mai detto? Trovare la musica adatta per i miei film è uno degli aspetti insostituibili del mio lavoro. Adoro ricercare personalmente la musica adatta, è un’operazione essenziale nella genesi di un film.

In Gran Bretagna esiste una tradizione che affronta temi sociali, legati agli ambienti della working class inglese (Ken Loach, Mike Leigh, Stephen Frears). Come si colloca la tua idea di cinema in questa tradizione?

Anche se anagraficamente appartengo alla generazione di Danny Boyle o Lynne Ramsey, mi sento parte della tradizione che hai citato. Sono cresciuto amando questi autori. Il cineasta più vicino al mio sentire è però Alan Clarke, perché ha saputo avvicinarsi agli aspetti umani riguardanti una determinata condizione sociale, senza soffermarsi unicamente sull’aspetto politico. Il mio approccio è simile: sono interessato alle ricadute che determinati ambienti possono avere sulle persone.

Il tuo ultimo lungometraggio di finzione, Somers Town, risale al 2008. Quali sono i tuoi progetti futuri? Tornerai a questo formato?

Sì, ritornerò al lungometraggio con un biopic sul ciclista inglese Tom Simpson. Simpson è morto di fatica affrontando la tappa sul Mont Ventoux, durante il Tour de France del 1967. La sua figura in Inghilterra è semi sconosciuta, ma mi ha colpito molto. Al centro del film saranno la sua capacità di non arrendersi e quella tenacia incrollabile. La prima bozza della sceneggiatura – scritta da Bill Ivory – è pronta, ma le riprese cominceranno nel 2017. Simpson avrà il volto di Joseph Gilgun (Woody in This is England): è appassionato di ciclismo e il suo corpo è perfetto per il ruolo. L’unico problema sono i tatuaggi sulle braccia, che in This is England definivano il personaggio e in quest’occasione andranno coperti. Certo, se scegliessi un attore come Brad Pitt potrei avere a disposizione milioni di sterline per la produzione, ma verrebbe meno la mia libertà. Preferisco un budget più contenuto, un attore che fa parte della mia “famiglia” d’interpreti e girare un film completamente libero.