Dall'arrivo negli Stati Uniti a Taking Off e la New Hollywood

Miloš Forman, go west young man!

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In occasione della retrospettiva che il Bergamo Film Meeting dedica a Miloš Forman, pubblichiamo un estratto del testo che Emanuela Martini, direttrice del Torino Film Festival e storica collaboratrice della rivista, ha scritto per il volume monografico curato da Angelo Signorelli.

In particolare, il frammento è dedicato a uno dei film meno noti e più belli di Forman,
Taking Off, primo film americano dopo che il regista aveva scelto di non fare ritorno in Patria a seguito dell’invasione sovietica del ’68 e della conseguente fine della Primavera di Praga.

Go West Youg Man

Miloš Forman arriva definitivamente in America nel 1968, da Parigi, dove si è fermato, senza rientrare in Patria, dopo che le truppe sovietiche hanno invaso la Cecoslovacchia, ponendo fine alla Primavera di Praga. Non è la sua prima volta negli Stati Uniti: c'è già stato, ospite con i suoi film al New York Film Festival, e poi per lavorare a un progetto americano propostogli da Moris Ergas (e mai realizzato) e per scrivere insieme a Jean-Claude Carrière la sceneggiatura di un film prodotto insieme a Claude Berri (che sarà poi Taking Off). Nel frattempo, da turista di lusso, ospite internazionale, si è trasformato in "emigrante" e, in quanto tale, impiega un po' di tempo per adattarsi al nuovo sistema che lo circonda e che, seppure in maniera meno esplicita e categorica dell'altro (quello sovietico) dal quale si è allontanato, oppone resistenza al nuovo e all'insolito, fa richieste, dissemina trabocchetti. Per "montare" la produzione di Taking Off ci vogliono circa due anni; il film si concretizza quando la Universal compra i diritti della sceneggiatura di Forman e Carrière e mette a disposizione un budget di 850.000 dollari. Forman potrà girare in libertà (come sta accadendo a molti dei giovani cineasti statunitensi), con il suo direttore della fotografia abituale, Miroslav Ondříček, autore della fotografia di quasi tutti i suoi film precedenti e di molti dei successivi. E potrà anche mescolare, come ha sempre fatto, attori professionisti e dilettanti, ragazze e ragazzi incontrati per strada, musicisti, sceneggiatori, come lo scrittore Buck Henry (il protagonista, Larry Tyne, che va in cerca della figlia adolescente fuggita di casa), che in realtà lavora già da qualche anno in televisione ed è già apparso in due piccole parti in Il Laureato (The Graduate, 1967) e in Comma 22 (Catch 22, 1970), che ha adattato per lo schermo.



Taking Off è un'immersione totale nel "nuovo mondo", anche se questo è circoscritto al recinto più familiare e più "europeo" di New York, in particolare l'East Village, un susseguirsi di volti, squarci, stili, ritmi, occhiate, situazioni imbarazzanti o più o meno insolite. Niente di nuovo sotto il sole, è evidente: la piccola borghesia americana, sebbene metropolitana, non è poi tanto diversa da quella ceca. Più ricca certo, ma solo all'apparenza più disinibita (in realtà puritana fino al midollo) e altrettanto petulante e distratta nei rapporti con i figli. Che, a loro volta, girano timidamente ma testardamente su sé stessi, vanno, vengono, inseguono una libertà che comunque fatica a guardare al di là dei confini del Village e a "osare" qualcosa di più di una stressante audizione teatrale.

Forman ha l'occhio acuto e acchiappa al volo la massificazione, già consacrata, degli elementi più vistosi della controcultura (soprattutto hippie): un giovane musicista silenzioso e capellone guadagna cifre astronomiche, i grandi, gli "adulti", fumano erba durante un party istruiti da un figlio dei fiori ripulito e poi, a casa, improvvisano uno strip poker tra coppie, una ragazza suona nuda il violoncello perché, da vestita, nessuno s'interessa al suo strumento. Li osserva, ne coglie i gesti, gli abiti, gli sguardi, gli status symbol, vecchi e nuovi. E, nella lunga sequenza dell'audizione disseminata nel corso del film, coglie soprattutto la disarmante voglia di cambiamento di questi ragazzi, che paiono però non avere la forza necessaria per liberarsi veramente, le "ali" per prendere il volo, per "decollare" (il significato del titolo, nelle sue diverse accezioni).

Esattamente quello che accadeva ai suoi giovani protagonisti cechi, goffamente intrappolati tra aspirazioni confuse e genitori incapaci di guidarli al di là della loro stessa mediocrità quotidiana, colti da Forman mentre girano a vuoto tra lavori insoddisfacenti e prime esperienze sessuali, tra sale da ballo affollatissime, fughe presto rientrate e riti ingannevoli come l'audizione musicale, alla quale si sottopongono con titubante ingenuità. Questa audizione, vero tessuto connettivo di Taking Off, l'elemento che dà ancora oggi vita e respiro a questo primo piccolo affresco americano, che guida con il suo contrappunto surreale gli sviluppi della storia centrale, non solo regolandone il ritmo, ma anche allargandone la prospettiva, dicendoci in pratica che la storia della fuga di Jeannie e della ricerca intrapresa dai suoi genitori è solo il tassello di un flusso più ampio, questa non è che la riproposizione dell'analoga competizione di Konkurs (1963, il primo lungometraggio di Forman) e della scena pretitoli (musicale) e di quella della sala da ballo dove suona Milda di Gli amori di una bionda (1965).

Forman affronta ciò che non gli è familiare (la media borghesia newyorkese e i suoi figli) utilizzando gli strumenti espressivi che ha già maturato in Patria: il dialogo impossibile tra genitori e figli, la propria sincera simpatia verso questi ultimi, la ricerca continua del particolare, del gesto automatico, della gaffe, dell'espressione inconsapevole (da cogliere senza preavviso, sia sul set che per strada), e quindi il ricorso al grottesco, all'ironia, come obiettivi attraverso i quali scrutare il mondo, la musica come collante e artefice del ritmo conferito alle immagini, il canto non tanto come "liberazione" (questo, se mai, arriverà con Hair, id., 1979), quanto come almeno potenziale espressione di sé (le ragazze, alquanto taciturne, partecipano alla prova di canto e, soprattutto, alla fine Larry, il protagonista, esterrefatto dalle cifre che guadagna con la musica il capellone scontroso che la figlia gli ha portato a casa, irrompe in un'interpretazione a gola spiegata di Stranger in Paradise, celeberrimo brano del musical Kismet, come a dire che lui, in quel mondo, non ci capisce più niente, ma forse anche un'autoironica dichiarazione dell'autore esule al Paese adottivo.

In pratica, Forman mette a frutto il suo passato per lavorare sul suo presente, e riesce così a entrare con intelligenza caustica nella realtà americana. Per questo mi sembra […] che Taking Off rientri a pieno titolo in quel magma sfaccettatissimo che fu chiamato New Hollywood, dove le linee, le derive e gli stili non furono mai predefiniti né coerenti; dove si trattava semplicemente di raccontare gli umori, l'aria, le suggestioni e le contraddizioni che continuavano a esplodere nella società e nella cultura americane. Se mai, la sua è una New Hollywood più newyorkese che losangelina, più acida commedia urbana che fuga verso l'infinito, più fenomenologia mimica che intimismo paesaggistico, più satira bruciante che paranoia incombente.

Più volte si è parlato di "bozzetto" o "caricatura" come cifra umana (e perciò stilistica) prediletta da Forman; e, se trovo ingenerosa la seconda parola (caricatura, che implica generalmente un giudizio limitativo, di mancato approfondimento), credo che il bozzetto, la situazione o l'espressione colta al volo, sia stato uno dei meccanismi espressivi chiave di tutte le nouvelle vague occidentali. E che, alla sua maniera, la New Hollywood non abbia fatto differenza. Certo, la grandezza sta nel saper passare dal bozzetto all'affresco: e qui non si può non citare il maestro indiscusso, Robert Altman, cui Forman, sotto certi punti di vista, assomiglia. La coralità (punto di forza dei migliori film altmaniani, anche quando non siano esplicitamente corali) è la caratteristica che Forman ha già sviluppato in Patria, e sulla quale continuerà a lavorare, con più o meno dedizione, in America. Non la trasforma, come Altman, nella propria cifra stilistica e morale fondamentale. Anzi, l'unica volta che ne avrebbe davvero l'occasione, nel 1981, con Ragtime (id.,), kolossal dal romanzo di Doctorow prodotto da De Laurentiis che, colpevolmente, lo ha sottratto ad Altman, nonostante la costruzione caleidoscopica fosse perfetta per il maestro di Kansas City, Forman sbaglia completamente il bersaglio, eliminando gran parte della costruzione a mosaico per privilegiare una delle tante storie narrate. Tuttavia, non perde mai del tutto di vista il "contorno" umano che generalmente sta ai margini dello schermo. Forman sta un po' in bilico tra Altman, da una parte, e, dall'altra, Nichols e Mazursky, newyorkesi, più acculturati (Altman lavorava, da uomo colto, più sull'istinto, sulla "pancia", che sulla razionalità), più orientati alla commedia che al dramma.

Ed è proprio con il dramma (quello caustico degli ultimi decenni del Novecento) che Forman diventa non solo cittadino americano, ma una star indiscussa del panorama hollywoodiano.