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Sete (Törst, 1949)

Perché Sete? Forse, semplicemente, perché l’ho visto dopo. Dopo Persona, Il silenzio, Sussurri e Grida, Monica e il desiderio, e sicuramente dopo Scene da un matrimonio. Eppure, quando l’ho visto, ricordo chiaramente di aver pensato che ci fosse già tutto. Ossessioni in primis. Anche e soprattutto le mie ossessioni cinematografiche. Dapprima la sensazione di ipnosi cominciata con quel mulinello sui titoli di testa e cresciuta poi nella costruzione degli spazi appiccicati addosso ai personaggi come i loro traumi, le loro delusioni, le loro frustrazioni. Non c’è requie in Sete. Tutto si muove, in continuazione. “Vorrei fare un film in cui la macchina da presa sta ferma e i personaggi entrano ed escono dall’inquadratura” pare avesse detto Bergman in una telefonata a Woody Allen. Qui invece si muove tutto. Tutto e tutti. Qui tutto danza in una coreografia nevrotica dell’esistenza, con i personaggi impossibilitati a trovare pace, continuamente impegnati con un oggetto, un’azione, con il vano tentativo di trovare una posizione nello spazio (e nel mondo). E la macchina da presa danza insieme a loro, impeccabile nei tempi e nei modi, già assoluta. D’altra parte Rut è una ballerina, una che nella danza – dice – ha una casa più reale di quella in cui vive, e lo dice mentre sta vivendo su un treno, la “nostra casa mobile”, la chiama.