Diario fotografico (4)

Facce da festival

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Che cosa ci resterà di queste due settimane di festival iper-ultra-post-modernista-tecnologico? Che cosa ci porteremo a casa da Berlino 65?

Certo, le sue fantasmagoriche (o fantasmagotiche?) scenografie. Certo, le proiezioni emozionanti, non fosse altro (anche solo) per la tecnologia audio, nella maggior parte dei casi un Dolby Atmos con 128 tracce suddivise in almeno 64 casse per sala, che ti fanno tremare da dentro ad ogni basso percepito. Certo, il solito, anche se sempre emozionante, “Renzo Piano Pensiero”, che concepisce e trasforma questa ex terra di nessuno, sospesa tra Est e Ovest, in Potsdamer Platz: un mondo nuovo, onirico e colorato, un mondo diverso, privo di vincoli, siano questi estetici, economici o più semplicemente di mera banalissima statica.

Certo, tutto questo ma anche le espressioni, i volti, le smorfie le facce che hanno fatto da controcanto dal vivo a queste cento visioni. Ecco allora le code, poche tutto sommato, piuttosto ordinate, un po’ asettiche persino, così differenti da quelle di Cannes o di Venezia ad esempio

Ecco allora le sale, sempre piene, sia nelle proiezioni della critica (quanti altri festival hanno quasi 2700 giornalisti accreditati?) sia soprattutto in quelle dedicate anche al pubblico pagante, come in questo caso al Cinemaxx 7 durante l’anteprima in fuori-concorso dell’ultimo film di Wim Wenders Every Thing will Be Fine.

Ecco allora l’espressione determinata e serena dell’autore di El Club (il film forse più amato dalla critica di tutto il Concorso Ufficiale) Pablo Larrain, durante la conferenza stampa dopo l’anteprima del film.

Grazie alla recitazione precisa, la sceneggiatura avvolgente e repulsiva al tempo stesso, i luoghi scelti per ambientare la storia di questi preti che la Chiesa espelle allontanando dalla loro parrocchia, perché colpevoli di vari reati, e tiene chiusi qui, nel “club”, in un'anonima villetta sul mare, El Club mesmerizza lo spettatore in una mise en abyme obbligata.

Ma è proprio la fotografia del film a colpire di più. Il tono algido delle prime riprese colorate di blu non possono dipendere infatti soltanto dalla location all’alba, e i campi e controcampi delle interviste del prete psicologo ai testimoni della prima tragedia non possono essere casualmente cosi “corte di fuoco”, così facilmente sfocate anche nei primissimi piani.

Ed è proprio Larrain a spiegarcene il motivo, parlando di omologazione forzosa del digitale rispetto alla differenza positiva delle pellicola cinematografica. Parlandoci di acque differenti nei vari paesi, che producevano bagni di sviluppo, fissaggio e persino lavaggio differenti. Oggi invece, in un mondo in cui il sistema numerico ha imposto la sua dittatura, ogni “fotografia” è virtualmente, necessariamente, uguale ad ogni altra.

Quale allora la soluzione? Quella dell’utilizzo di ottiche radicalmente differenti. Larrain sostiene addirittura di aver “ereditato” quelle usate da Andrei Tarkovskij. Sicuramente di produzione russa, assolutamente asferiche, certamente costruite per macchine analogiche piuttosto che digitali. Ed il risultato è così evidente che non bisogna certo essere del mestiere per percepirne la portata.

E fa impressione, guardandosi alle spalle, notare tutti quegli stessi occhi digitali prendersi la propria vendetta catturando e diffondendo l’immagine di colui che li sta denigrando in tempo reale in tutto il mondo.

Ed è una pioggia di immagini quella che immaginiamo “cadere” contemporaneamente in tutti i nostri smartphone, i nostri tablet, i nostri pc, i nostri televisori... Una pioggia di immagini sempre uguale a se stessa e sempre cangiante, una pioggia di immagini e di luce.

Un po’ come quella che mi è capitato di fotografare davanti al Berlinale Palast proprio l’altra sera.