Foto diario: Hilfe!

One Man Berlinale #3

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“Hilfe!” Aiuto! Sembrano gridare molti film qui dalla Berlinale punto sessantasei.

Una richiesta d'aiuto urlata, forte, pressante, oppure leggera, appena sussurrata ma sempre difficile da ignorare.

Aiuto gridano disperati i migranti dal ventre di barconi fatiscenti mentre stanno affondando dalle radio della capitaneria del porto di Lampedusa in Fuocoammare  di Gianfranco Rosi (checché se ne dica il film più applaudito del concorso, con tutti i limiti che non possiamo non vedere, ma che forse ce lo rendono proprio per questo ancora più prezioso: in una “barca che affonda” come il sistema cinema italiano ci mettiamo a fare questioni di lana caprina?!)

“Aiuto!” urla in silenzio la protagonista di Avenir, che A) ci introduce alla storia chiedendosi (chiedendoci) se è possibile MAI davvero mettersi al posto di qualcun altro, che B) ci prova in prima persona facendo della filosofia il suo mestiere, che C) fallisce investendo tanto, troppo in un rapporto col prossimo che “naturalmente” la delude.

Aiuto! chiede depressa la protagonista di 24 wochen, cabarettista applaudita, moglie e madre amata, donna di successo quando scopre di essere in cinta di un figlio affetto da sindrome di Down e che soffre anche di cuore.

Aiuto! implora Damien da Thomas, il compagno di scuola di cui è innamorato e il cui rifiuto teme più di ogni altra cosa in Quand on ha 17 ans di André Téchiné. Storia ben raccontata, recitazione impeccabile, qualche ricordo nella forma (anche se pochi) da una rimpianta Nouvelle Vague.

Aiuto! cercano le protagoniste di un gelido, formalmente ineccepibile eppure al tempo stesso così scontato United States of Love del polacco Tomasz Wasilewski. Ognuna illusa dalla propria passione, ognuna delusa da un inevitabile fallimento. Compitino accademico con pochi scatti (un pugno inatteso e in pieno volto alla protagonista dal fuori campo, la caduta improvvisa nel fiume gelato di un personaggio tanto minore quanto incolpevole) che sorprendono e molta, molta scontatezza nella scrittura quanto nella mise-en-scène. Come dice qualcuno: “Il film di un giovane che nasce già vecchio”.

Fin qui il concorso principale (piuttosto deludente come avrete capito) anche se le grida di aiuto che ci rimangono più impresse vengono da altrove.

e il mondo dei gitani sembra uno dei più fertili al proposito.

Come nel caso di Tales of two who dreamt di Andrea Bussmann e Nicolas Pereda, presentato nel Forum e che ha produzione americana sebbene sia girato in Canada e parlato in ungherese.

Il palazzone di cemento non è proprio opera di Alvar Aalto però potrebbe anche sembrare il paradiso per questi gitani di etnia rom in attesa di vedere accettata a Toronto la loro richiesta di asilo.

Giocano a pallone, condividono i pasti, chiacchierano intorno al tavolo, ma soprattutto raccontano. Raccontano storie folli e stralunate, kafkiane e surreali, di bambini che si svegliano per metà trasformati in uccelli, di follie causate alle madri dall’improvvisa morte violenta di un figlio, di cani abbandonati negli appartamenti e morti di inedia dopo aver mangiato i loro escrementi quando i loro padroni sono stati improvvisamente costretti a lasciare il paese da una giustizia giusta solo a metà.

Il biancoenero è sporco e potente, le riprese fintamente casuali, il montaggio non permette di indugiare sull’inquadratura, ma al tempo stesso non si risolve in un vuoto quanto noioso assemblaggio da videoclip.

E durante il suo divenire come non ricordare la targa, che ho appena fotografato a Mauthausen collegata ad una bomba che solo pochi anni fa qualcuno ha fatto trovare fuori da un campo, proprio qui, nel paese che ospita questo fantastico festival, e che ha ucciso due ragazzi che, offesi dalla  scritta, cercavano di staccare il cartello dal suo supporto.

Ecco dunque che l'estetica si collega all'etica, film come questo sono tanto belli quanto importanti, giusti quanto utili, interessanti quanto necessari.

E infine c'è lo stupefacente Valentina di Maximilian Feldsmann mediometraggio da 51' presentato in Perspektive Deutsches Kino. In voice over questa giovanissima gitana, capelli nerissimi ed occhi enormi, innamorata della vita quanto della sua indigente famiglia, si racconta per gesti, fughe, corse a perdifiato nella no-man's-land periferica di una grande città dell'est europa.

Nulla è risparmiato a chi guarda, dalle lunghe sedute di accattonaggio della madre col fratellino in braccio,  alla cernita dei rifiuti fatta in bici dal padre e da cui tentare di trarre un poverissimo guadagno.

Per Valentina tutto è una festa. Dal gallo che continua a correre in cortile anche dopo che gli è stata staccata la testa, al fratello maggiore che un attimo prima la picchia e un attimo dopo, tenerissimo, cerca per lei una bambola tra gli scarti di una discarica abusiva.

E i momenti topici non mancano a dispetto della brevità: la famiglia di 10 persone tutte stese per terra e sui divani riciclati che in un totale, nell'unica stanza disponibile, guardano in tv un film hollywoodiano, gli incontri dal medico donna che invita la mamma di Valentina a tagliarsi le tube, i dialoghi al limite del comico in cui il padre dall'assistente sociale non riesce proprio a ricordare né  il giorno né il mese in cui sono nati i suoi 7 figli ancora vivi.

Per questa gente il tempo ha un altro valore, così come gli affetti ed i beni materiali si situano su scale completamente differenti.

Come altrimenti considerare lo spauracchio peggiore per la nostra giovane protagonista e cioè quello di essere divisa dagli altri membri della sua famiglia e magari mandata in una pulita, ordinata, riscaldata e linda casa famiglia?

Dal punto di vista formale anche qui il b/n è di prammatica, ma quanto differente dal precedente.

Le ottiche grandangolari isolano questi personaggi in uno spazio costantemente ostile. Il fango, la neve, l'acqua che scende da un rubinetto spaccato sottolineano una povertà degradante. Eppure il sorriso campeggia spesso su questi volti a tratti comprensibilmente preoccupati. La povertà è una disgrazia. L'indigenza un destino. Ma l'affetto che lega queste dieci persone molto spesso non eguaglia quello delle nostre condizioni, fortunatamente il più delle volte non così difficili o disperate.

Un nota bene per finire. Le foto che accompagnano l'articolo riflettono, con un meccanismo che ricorda la scrittura automatica, le sensazioni che ho provato guardando tutti questi film.

Odio, ansia, paura, solidarietà, distacco, unione, freddeza e calore si affastellano continuamente durante le visioni di un festival. E il rischio di sovraccarico, sempre dietro l'angolo, rende ancora più vitale, interessante, adrenalinica, imperdibile l'esperienza.