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Ta’ang di Wang Bing

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Esattamente il giorno dopo la presentazione di Fuocoammare, al Forum è passato un altro documentario che in qualche modo rappresenta il controcampo del film di Gianfranco Rosi: Ta’ang di Wang Bing. Il film prende le mosse da una vicenda simile a quella indagata da Rosi (non tanto dal punto di vista della cronaca, quanto dalla prospettiva della condizione umana), ma lo stile narrativo e l’impianto adottato da Wang Bing sono decisamente agli antipodi.

Il regista cinese sceglie di seguire una “carovana” di profughi di etnia per l'appunto Ta’ang, in fuga da una guerra civile catastrofica di cui nessuno parla (quella che coinvolge la popolazione del Myanmar, per sfociare poi oltre il confine della Cina), senza porsi alcuno scrupolo di origine morale o estetica rispetto all'ipotetica invasione nel campo fisico e visivo delle persone che riprende. Scegliendo uno stile diretto e violento, testimonianza di un presente di anormale semplicià; Wang non si cura di risultare invisibile agli occhi degli uomini, delle donne e soprattutto dei bambini di cui racconta il vaggio della speranza, né tanto meno di essere accomodante nei confronti dello spettatore.

Ta’ang è un film che non fa sconti a nessuno, che coinvolge totalmente lo sguardo. E come immergendo lo spettatore nel proprio mondo, lo mette a strettissimo contatto (la macchina da presa è spesso vicina ai corpi e ai volti dei protagonisti) con una realtà che non lascia tregua né respiro. Se Fuocoammare analizza il problema dal punto di vista di un bambino dodicenne incapace di cogliere a fondo ciò che accade intorno a lui, Wang sa bene di non poter mantenere la stessa distanza per raccontare la tragedia dei propri personaggi, e dunque decide in qualche modo di "accorciarla".

Non c’è (più) tempo per uno studio geometrico dell’inquadratura, non c’è (più) tempo per provare a conoscere ed entrare in contatto con le persone. Il qui e ora si fanno più imperativi che mai e trascinare lo spettatore all’interno di una realtà così tragicamente complessa diventa, per il regista, una scelta morale. Così, quando le bombe della guerra iniziano a esplodere al di là di una collina – spia di una minaccia ancora invisibile dalla quale, però, è impossibile scampare – è per le nostre vite, prima ancora che di quelle dei personaggi, che iniziamo a temere.