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"Maps to the Stars"

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A volte, anche (e soprattutto) nei festival, ci sono dei film per i quali senti l’urgenza di tirare il freno a mano e concederti il lusso di una seconda visione immediata. A questo giro è toccato a David Cronenberg, o meglio, al suo Maps to the Stars. 

Due anni fa, sempre alla Croisette, Cosmopolis lasciò perplessi molti di noi e a nessuno venne voglia di vederlo due volte. Una seconda visione di Maps, invece, si rende necessaria di fronte alla sua grande profondità, all’architettura di segni stratificata, all'intreccio concitato che solo allo spettatore distratto può sembrare una satira monodimensionale.

Questa volta Cronenberg il film se l’è fatto scrivere da Bruce Wagner e il lavoro era pronto nel 2007; ma la produzione si inceppò e lo script divenne un romanzo, Dead Stars, uscito un paio d’anni fa. Wagner, che per il cinema non ha fatto moltissimo, è pur sempre l’autore di Scenes from the Class Struggle in Beverly Hills, di Paul Bartel. E con quel film, di ormai venticinque anni fa, non sono pochi i punti di contatto.

Il walhalla hollywoodiano, però, è progredito nella sua putrescenza, nell’accumulazione di perversioni, ma soprattutto non abbiamo più il rococo barteliano a raccontarlo, piuttosto un contrappunto geometrico, un approccio iperrealista, impietoso, che innesta questa vicenda di ambizioni, frustrazioni, fantasmi, incesto e psicosi, sullo schema della tragedia classica: e allora proprio sugli scarti rispetto a quello schema bisognerà ragionare, e su come in questo contrappunto il regista canadese riesca a infilare ossessioni vecchie e nuove.

Un senso di divertita ironia attraversa il film, e questo passa anche attraverso le scelte di casting e il lavoro sugli attori, in un fugato che rincorre a più livelli il confine tra verità del corpo e performance, ruoli passati e ruoli possibili. The kids are not all right, not at all, viene da dire: Mia Wasikowska – che non è esattamente bella e neppure particolarmente brava, eppure perfetta nella parte della ragazza piromane ripudiata dalla famiglia – reincontra Julianne Moore (generosissima nel darsi, livida e nevrotica, esposta e fragile, alla macchina da presa) e diventa sua assistente, per gentile intercessione di Carrie Fisher in persona, che è pur sempre la principessa Leila di Star Wars, se non fosse che puà anche vantare una biografia di quelle belle incasinate, alla Wagner, appunto; Robert Pattinson passa dal sedile posteriore al volante della limousine, nel ruolo dell’autista/aspirante attore che sta valutando di diventare scientologista per far carriera; John Cusack si espone all’obiettivo col volto paralizzato in maschera impietosa da blefaroplastiche e botox.

Ma, soprattutto, Maps to the Stars conferma un Cronenberg critico, o meglio, sarcastico, sui limiti, se non la pericolosità del method freudiano, della psicanalisi: non bastasse la rete di relazioni incestuose, vere o presunte, il Dr. Weiss di Cusack è un terapeuta che pretende di curare il disagio attraverso una forma molesta di massaggio regressivo: due dita dove non batte il sole e ti stano tutto il rimosso che ti fa tanto soffrire.

In fondo, l’unica cura possibile, insieme a una (imperfetta) catarsi o un suicidio rituale (il Padre però rimane in vita) sembra essere la folle lucidità dell’arte, della poesia: Liberté di Paul Éluard (che è un’ossessione di Wagner ed era già al centro di una gag surrealista in Scenes from the Class Struggle) diviene una sorta di spell inconsapevolmente condiviso tra i personaggi. Solo la poesia, forse, può liberare la materia dalla materia.