Concorso

The Last Face di Sean Penn

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Alzarsi e abbandonare la sala dopo la didascalia iniziale non è un gesto elegantissimo, ma, dal punto di vista di chi poi in sala ci è rimasto fino alla fine, una scelta preveggente e liberatoria.

Il cartello che apre The Last Face di Sean Penn, inspiegabilmente in competizione a Cannes 69, non l'ho memorizzato, né d'altronde è chiaro, nella presentazione di una carta geografica del continente africano con evidenziate le zone di guerra della Sierra Leone e dell'area equatoriale, in quale luogo preciso si verrà scaraventati dalle riprese a fuoco selettivo di Barry Ackroyd e dalla musica spalmata a tappeto di Hans Zimmer - una combinazione di stili e stilemi dietro la quale non è difficile vedere il magistero del peggior Malick (con un risultato non dissimile dallo spot dell'8xmille alla Chiesa Cattolica).

Ecco, il cartello che non ho memorizzato nel dettaglio diceva più o meno che l'efferatezza e la violenza di quanto avviene nelle zone di guerra, una guerra ancora in corso, sono paragonabili soltanto a quelle che intercorrono tra un uomo e una donna che si lasciano. Magari no: nemmeno Omero (o chi per esso), nel fissare la storia della guerra di Troia, è stato tanto spudorato.

Perché ambientare le pene d'amore di Wren (Charlize Theron, che, poveretta, è anche bella e brava) e Léon (Javier Bardem, già più gigione) in una generica zona d'Africa, alludendo a conflitti ancora in atto, rimettendo in scena battaglie, guerriglia allucinata (che quasi fa rimpiangere il pessimo Fukunaga visto a Venezia) e interventi chirurgici en ralenti, è immorale, nella sua spudoratezza.

Perché, già, i nostri sono due medici, di quelli che stanno quotidianamente, eroicamente in prima linea, Médecins du monde e Médecins sans frontières. Quel che sembra maggiormente interessare a Penn è che allo spettatore risultino imperscrutabili gli sbattimenti che i due amanti separati vivono nel proprio intimo: soprattutto Wren, che si cruccia, in flashback, e si strugge, nella casa avìta, persa nel bush sudafricano, con la tata bantu, con la quale parla afrikaans, giusto per mostrare quanto è brava, oltre che bella, e fugare le eventuali accuse di colonialismo.

Perché The Last Face è "una lavatrice per coscienze che fa partire per prima la centrifuga", un film che crede che l'esibizione della carne umana, del sangue e delle budella sia un modo per risvegliare la coscienza e la sensibilità degli spettatori. All'ennesima trovata gore, implausibile, che vede la strada di un villaggio sbarrata dagli intestini srotolati di un bambino, alzarsi e uscire, magari a riflettere sul destino di un certo tipo di fictionalizzazione della Storia, è una scelta auspicabile, secondo coscienza.