Concorso

In the Fade di Fatih Akin

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Mettiamola così. Fatih Akin non è esattamente un grande regista o tantomeno uno che va per il sottile. Fin dal suo film più famoso, Ai confini del paradiso (2007), che qui a Cannes vinse il Premio della sceneggiatura, è un autore a cui piace ragionare per parti (il titolo originale di quel film, Auf der anderen Seite, significa dall'altra parte), dividere il mondo in parti e quelle parti farle scontrare. 

Di solito, da figlio di immigrati turchi, mette in contrapposizione il mondo a cui appartiene per nascita e quello a cui è legato per origini, costruendo i suoi drammi su polarizzazioni nette, andate e ritorni (anche l'orripilante The Cut, per dire, era ambientato fra l'Armenia e gli Stati Uniti e usava la ferita alla gola del protagonista come segno, linea di confine fra un prima e un dopo, un qui e un laggiù). 

Non diversamente dal solito, anche In the Fade presenta un incontro/scontro fra tedeschi e turchi dalle identità evidenti, bianchi occidentali e biondi da una parte e orientali dalla pelle bronzea e i capelli corvini dall'altra. Per amore di variazione, però, le pedine sono mescolate e rimesse in gioco: la protagonista, Katja, è una tedesca di Amburgo, suo marito un turco ex spacciatore completamente riabilitatosi dopo la galera e il loro bambino un piccolino di sei anni dalla pelle bianca e i capelli ricci. C'è un attentato terroristico, che è ovviamente un puro pretesto: le vittime sono gli innocenti che di solito non ti aspetti e i responsabili due ragazzi dall'aspetto insospettabile. Katja resta sola a confrontarsi con la giustizia, con uno uno stato che non c'è e con un'idea di vendetta che presenta nodi morali e personali difficile da sciogliere.

Svelare il resto della trama sarebbe ingiusto, ma dal gesto finale della protagonista passa in realtà il senso del film, un ribaltamento della realtà che ad Akin serve per mettere a nudo meccanismi di accusa e difesa, innocenza e colpa, che per la società europea contemporanea sono diventati meccanici. 

Certo, ruotare la macchina da presa di 180° gradi e mostrare il mare a testa in giù non è esattamente una scelta di regia sofisticata, ma ad Akin non bisogna chiedere troppo. Forse può bastare il fatto che il suo film, pur cercando evidenti soluzioni di genere, abbia il coraggio (o magari è solo povertà di scrittura) di mettere a nudo i propri stessi meccanismi, di giocare in maniera diretta, per una volta non sporca, con il moralismo evidente della sua storia, con le sue polarizzazioni inconfondibili (ci sono anche un avvocato della difesa bello e compassionevole e un avvocato dell'accusa mefistofelico) e con un'idea finale di sacrificio che prova a prendere in contropiede la morale comune legata all'interpretazione di un gesto (non sveliamo quale) diventato purtroppo sempre più attuale. 

In the Fade, insomma, è un brutto film. Ma è un brutto film che si pone questioni delicate e tutt'altro che secondarie, tematizzando la possibilità di uno stato di guerra e rappresentandolo da una prospettiva fuori genere che se non altro ha il pregio della provocazione non gratuita.