Concorso

Le redoutable di Michel Hazanavicius

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Godard non esiste, in realtà. Jean-Luc Godard è un attore che interpreta il personaggio Godard. È un mito, una maschera, un pezzo di storia del cinema. E Michel Hazanavicius, che dopo il tonfo di The Search aveva bisogno di rifarsi una verginità, ha cercato di riprodurre il meccanismo di The Artist (il film in bianco e nero che omaggiava l’era del muto), usando Godard e il suo cinema. L’idea? Una commedia biografica che gioca con la leggenda godardiana, l’egocentrismo, il caratteraccio, la misoginia, i proclami rivoluzionari, il maoismo, i capolavori rinnegati, il collettivismo.

Troviamo Godard sul set de La chinoise insieme a una giovanissima Anna Wiazemsky, che diventerà sua moglie, in teoria voce narrante, anche perché Le redoutable è ispirato a un suo libro autobiografico (Un anno cruciale). Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione cinematografica, e sembra che una rivoluzione stia per esplodere anche per le strade di Parigi. Il film è diviso in capitoli e dentro c’è un po’ di tutto: La cinese rifiutato anche dai cinesi, le manifestazioni del Maggio francese con lancio di sanpietrini, il Festival di Cannes interrotto nel ’68 (qui Cannes si prende una perfida rivincita), il collettivo Dziga Vertov, il rapporto difficile con Bertolucci… Ed ecco, inevitabilmente, anche l’evocazione ludica di quel cinema, l’utilizzo di invenzioni, tecniche, stilemi che hanno cambiato per sempre la settima arte, ridotti a un repertorio di cliché.

Sta qui il primo (grave) problema del film di Hazanavicius: ciò che in The Artist era omaggio divertito, complicità cinefila, affettuosa nostalgia, in Le redoutable diventa esibizione arida, “carina” e anche un po’ cretina, una collezione di luoghi comuni, di narcisismi stilistici e forzature, qui ironiche e là quasi parodistiche. Mentre nel film premio Oscar la forma era il contenuto, e la mimesi di quel linguaggio rievocava un modo di intendere il cinema e la vita, il nostro bisogno di credere ai sogni e al lieto fine, qui invece i brandelli di (anti)grammatica godardiana contribuiscono alla banalizzazione del personaggio e della sua storia.

Ed eccoci al secondo, fondamentale, problema del film, la riduzione di Godard a una macchietta, quasi una maschera comica, anche grazie alla prova notevole di Louis Garrel. La trasformazione da “cineasta rivoluzionario” a “rivoluzionario che usa il cinema”, raccontata da Anna, assume sempre più i contorni di una messa in ridicolo del personaggio. E sia chiaro che il problema non è la “lesa maestà” – Godard non è mai stato indulgente con se stesso – ma l’effetto straniante e ridicolo prodotto dal cinema elegante e lezioso di Hazanavicius mentre usa il cinema rivoluzionario di Godard per giocare al cinema d’autore. Non basta qualche battuta azzeccata e immagine indovinata a risollevare il film dalla sua anonima, parassitaria inconsistenza.