Concorso

Atlantique di Mati Diop

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Nonostante l’immagine esotica, rurale e selvaggia a cui ancora oggi viene associata nell’immaginario anglo-europeo, l’Africa è ormai soprattutto un luogo urbano (lo dicono le statistiche, secondo cui la maggior parte della popolazione del continente ormai vive in città) fatto da megalopoli e da uno sviluppo capitalistico sempre più ineguale e spietato. Lo vediamo all’inizio di Atlantique, opera prima di Mati Diop, che mostra il cantiere di un enorme grattacielo in costruzione a Dakar, e un gruppo di lavoratori dell’edilizia sul piede di guerra, perché il responsabile del cantiere è da tre mesi che non paga gli stipendi.

Tra loro c’è Suleiman, giovane e aitante muratore, che sta intrattenendo una storia d’amore con Ada, una ragazza diciassettenne di una famiglia islamica tradizionalista. Entrambi però, che si vedono di nascosto in riva al mare, nascondono un segreto: lei è stata promessa in sposa a un riccastro locale, che a malapena la guarda in faccia; mentre lui sta per lasciare il Senegal per imbarcarsi su uno dei mezzi di fortuna che tenta, in mezzo a mille rischi, di attraversare l’atlantico per arrivare in Spagna. Il mare quindi – l’Atlantico del titolo – che è a un tempo lo sfondo sublimato di un amore giovanile, ma anche l’inferno di uno dei trauma più “repressi” e invisibili dei nostri tempi, costituisce l’immagine attorno a cui prende corpo il film.

Cresciuta in una famiglia d’arte (è nipote del grandissimo regista senegalese Djibril Diop Mambety e figlia del musicista Wasis Diop), ma conosciuta soprattutto per la sua carriera di attrice (molti se la ricorderanno in 35 Shots of Rum di Claire Denis) Mati Diop, che è anche la prima donna nera che ha mai partecipato al concorso di Cannes, costruisce un film sul controcampo delle migrazioni del mediterraneo, adottando un registro a metà tra il sovrannaturale e la descrizione realistica e politica di una generazione di giovani adulti senegalesi, tagliata in due dall’esperienza del trauma della migrazione verso l’Europa.

È abbastanza stupefacente in effetti constatare come uno degli eventi politici più cruciali degli ultimi decenni – i movimenti migratori che dall’Africa vanno verso l’Europa, con tutte le conseguenze politiche e sociali che questo ha comportato in entrambi i continenti – non abbiano avuto modalità collettive di rappresentazione simbolica ed estetica. Il trauma delle morti del mediterraneo rimangono un evento muto, che difficilmente riesce a singolarizzarsi in modo diverso dal vittimismo o dalla speculazione politica. È proprio questo che viene a messo a tema Atlantique: quando un evento non ha un modo per essere simbolizzato finisce per ritornare in una forma rimossa. La morte di Suleiman e di tutti quelli che come lui tentano di attraversare il mediterraneo, diventerà infatti una maledizione (un po’ come accadeva in Xala di Semebene Ousmane, uno dei più importanti film africani della storia del cinema). Il letto di nozze di Ada e del marito prende fuoco appena dopo le nozze, e i muratori che lavoravano nella torre di Dakar “possiedono” il corpo delle loro mogli facendole diventare degli zombie, e ritornano a tormentare il debito non pagato del padroncino locale. Ma naturalmente è la storia d’amore di Ada e Suleiman, interrotta bruscamente dall’ingresso della storia nelle loro vite, il centro del film e la vicenda dove emerge più chiaramente il senso di incompiuto che comunica il film. 

Perché il grande merito di Atlantique è soprattutto quello di spostare l’universo simbolico delle migrazioni nei paesi d’origine, e chiedersi che cosa voglia dire far parte di una generazione – quella dei giovani dei paesi africani, dato che a emigrare sono soprattutto i ventenni – che continuamente vede le proprie vite interrotte e traumatizzate da una contingenza economica brutale. Nulla sappiamo di quei desideri, e il grande merito di quest’opera prima – non priva di ingenuità ma senz’altro lucida nella sua consapevolezza politica – è senz’altro quello di aver provato a restituircene un’immagine.