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Bacurau di K. Mendonça Filho e J. Dornelles

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Gli oppressori. Gli invasori. Quelli che pensano di poter fare ciò che vogliono (anche uccidere senza una ragione) solo perché hanno denaro, potere, tecnologia, voglia di emozioni forti.

Gli oppressori assassini, in Bacurau, non hanno un'identità precisa. Sono quasi un'entità mitica (cinematografica), l'incarnazione di una forza che prende un nome diverso in ogni tempo e luogo. D'altra parte sono mitici – appartengono alla tradizione popolare, escono da memorie letterarie e racconti orali, da romanzi e film – anche gli abitanti di Bacurau, villaggio del Sertão, dentro un film che è western e fantascienza distopica, è un'idea slasher che gioca col cinema popolare brasiliano, con tratti da commedia, dentro la misura di un film d'autore, molto personale, vivo, vero.

Siamo in Brasile, certo, ma potremmo essere ovunque, come ci segnala il prologo, che scende con uno zoom dalle stelle al pianeta Terra, destabilizzando il nostro sguardo euro-usa-centrico, puntando l'obiettivo sull'America del Sud. E allo stesso tempo non potremmo che essere nel Nordest del Brasile, in quei luoghi selvaggi e abbandonati, dentro quell'immaginario, la cultura del cangaço (il banditismo che imperversò in quella regione tra fine '800 e inizio '900, e che ha prodotto anche un genere cinematografico).

Bacurau è un luogo di libertà, ideale e sessuale, di memoria orgogliosa, di comunità, povera gente piena di dignità, animata da una sapienza antica. È un luogo isolato, dimenticato da tutti, abitato da agricoltori e banditi, professori e prostitute, figlio dei quilombos, agglomerati di case creati un tempo lontano dagli schiavi in fuga, dove era possibile organizzare una resistenza. Un villaggio a cui hanno tolto l'acqua, e che qualcuno vorrebbe cancellare dalla mappa. Bacurau ha il nome di un uccello notturno, abile a nascondersi, misterioso, «è l'ultima chance di tornare a casa» (come dice Juliano Dornelles, uno dei due registi).

Quando il film comincia, sembra di stare dentro il solito ritratto di un luogo esotico, un'escursione sociale e politica nell'altra America, per esaltare gli ultimi che non si arrendono, con la loro voglia di vivere nonostante tutto. Un realismo magico che però non si accontenta del bozzetto, che ci dà tutto il tempo per conoscere uomini, donne e bambini, per penetrare lo spirito del luogo, con la grazia e la sensibilità che abbiamo imparato a riconoscere a Kleber Mendonça Filho (regista di O Son ao Redor e di Aquarius, visto a Cannes nel 2015, qui in coppia con il collaboratore di sempre Dornelles). Poi il film si rivela un lungo, lento crescendo, condotto in infinite carrellate (1200 metri di binari, li hanno contati), tendine orizzontali e verticali, con un'aura retrò da film di genere americano (dato da obiettivi Panavision anamorfici anni '70), che sfocia in una spettacolare e sanguinosa sequenza finale. Retro-futurismo, in realtà. Il film è ambientato in un futuro che sembra uscire da un qualche passato, ma che è abbastanza generico da poter diventare simbolico, senza bisogno di gingilli fantascientifici. Si tratta di evocare lo sviluppo incontrollato della violenza cieca che vediamo intorno a noi, come se fosse il cinema a dover rincorrere una realtà sempre più distopica.

Ci sono assassini hobbysti che conducono una caccia all'uomo, e c'è un villaggio che deve resistere, come accade nei film western o nel cinema dei cangaçeiro. Ma il film non assomiglia mai a un esercizio (di genere). Mendonça Filho e Juliano Dornelles riescono nell'impresa di illustrare una metafora, di alludere al presente brasiliano e americano, alla rivalità tra nord e sud, al “coronelismo” (lo strapotere dei potentati locali, eredità dei tempi in cui il Brasile era governato dai proprietari terrieri) e, contemporaneamente, di incarnare un mondo, con la sua realtà e la sua umanità. Tanto che ci ritroviamo a fare il tifo, quando i Buoni (i “selvaggi”, gli “indigeni”, i “semplici”) si ribellano ai Cattivi (bianchi, ricchi, sradicati), dentro un film che propone improvvisi scarti da un genere all'altro, accompagnati da un'intelligente colonna sonora, in cui ritroviamo canzoni popolari e suoni industriali (e Night di Carpenter!). Un film collettivo che però ha due mattatori doc, la traduzione del mito (bene vs male) in cinema: Sonia Braga e Udo Kier. Davvero sorprendente.