Concorso

Il traditore di Marco Bellocchio

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Marco Bellocchio ha dimostrato come il suo cinema possa interpretare, forse capire, la storia italiana attraverso la prospettiva del sogno e della fantasia: un mondo di fantasmi personali che intercetta l’ombra di fantasmi collettivi.

Il segno della croce dei brigatisti in Buongiorno, notte, la via crucis per le strade di Roma in L’ora di religione, l’esibizionismo a metà tra imitazione e derisione del figlio non riconosciuto di Benito Mussolini in Vincere, sono solo alcuni dei passaggi onirici, fuori tono e fuori contesto che per una improvvisa illuminazione del loro creatore arrivano inattesi a sintetizzare fenomeni culturali, sociali, storici, anche psicologici, che riguardano la storia d’Italia e degli italiani. Non c’è ragione, nemmeno documentazione: sono idee, di pancia più che di testa, che trasportano la rappresentazione storica nel regno dell’immaginario.

In Il traditore, biografia del pentito di Cosa nostra Tommaso Buscetta, di questi momenti che hanno reso unico, a volte fin troppo riconoscibile, il cinema di Bellocchio, ce ne sono solo alcuni, e sono rapidi e sfuggenti: i flash improvvisi e irrealistici che all’inizio del film isolano e introducono i volti dei mafiosi appartenenti ai due clan in lotta, i corleonesi e i perdenti Bontate, Inzerillo e Badalamenti, tutti minacciosi, tutti ridicoli, sciatti e mediocri; oppure l’Andreotti in mutande e calzini visto di sfuggita dallo stesso Buscetta in una sartoria di Roma; o ancora il boss rinchiuso all’Ucciardone negli anni ’70, che chiude pietosamente gli occhi a un anziano prigioniero morto, prima di fare sesso con una prostituta («Tutti fuori: Buscetta deve scopare!»)…

A differenza di quanto fatto con il terrorismo, il cattolicesimo, il fascismo, la politica contemporanea, e prima ancora con la scuola e la famiglia borghese, Bellocchio racconta la mafia come un mondo che non gli appartiene, di cui sa di non far parte nemmeno inconsapevolmente, nonostante ne riconosca come tutti il grado di pervasività nelle istituzioni pubbliche. Cosa Nostra come un corpo estraneo all’Italia e agli italiani. Anzi no, meglio: come un corpo altro, che si oppone allo Stato ma al tempo stesso lo infiltra e condiziona.

Nasce presumibilmente da questa consapevolezza il realismo di Il traditore, che a partire dalla prova mimetica di Pierfrancesco Favino non è la versione bellocchiana e sinistramente grottesca (come forse era lecito aspettarsi e come forse l’avrebbe fatta Sorrentino) di una figura ambigua e fondamentale del nostro recente passato, il supertestimone grazie al quale Giovanni Falcone imbastì la struttura del maxi processo alla mafia siciliana.

Le ragioni di Buscetta, che sosteneva di non essere un traditore in quanto i primi ad aver tradito Cosa nostra erano stati gli stessi corleonesi, offuscati dalla sete di potere e allontanatisi del presunto ideale di una mafia buona e morale, sono usate da Bellocchio e dai suoi sceneggiatori Rampoldi, Santella e Piccolo per rappresentare il mondo mafioso, doppio rispetto alla realtà del Paese, ma agli occhi dei suoi affiliati fondato su una percezione unica e veritiera.

I dialoghi tra Buscetta e Falcone, girati con una rigida successione di campi e controcampi, sono letteralmente il confronto fra due opposte idee di stato; un momento di scambio (la verità da un lato, la protezione dall’altro) in cui emerge soprattutto lo sfasamento percettivo del mafioso. Di contro, un altro confronto tra due grosse personalità, ancora Buscetta e l’ex compagno e nemico Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), è invece girato con i due personaggi non l’uno di fronte all’altro, ma l’uno al fianco dell’altro, in guerra l’uno contro l’altro ma insieme nel campo di battaglia (l’aula di giustizia) che lo Stato italiano fatica a gestire. Rispettando il dato reale delle norme di sicurezza che durante il processo impedivano ai boss di guardare negli occhi i testimoni, Bellocchio rappresenta Cosa nostra come opposta e al tempo stesso parallela allo Stato, dotata di modalità imperscrutabili di fronte alle quali non si può far altro che trasformarsi in spettatori. Lo scambio meravigliosamente teatrale tra Buscetta e Calò è uno spettacolo vero e proprio, espressione realistica eppure oscura di quel “terzo livello” della mafia che tutto decideva e che nemmeno il superpentito avrebbe rivelato.

L’idea dell’infiltrazione e del contagio mafioso Bellocchio la mette in scena mostrando l’assoluto irrealismo della presenza della mafia nello spazio del film: come se l’elemento onirico del suo cinema si fosse normalizzato e incarnato sulla scena. Il boss che all’inizio del maxi processo si cuce la bocca per non parlare offende con il suo sangue un momento solenne; i soldati di Cosa nostra che hanno sotterrato chili di tritolo sotto il manto stradale di Capaci sono mostrati come semplici operai stanchi e sporchi del loro lavoro; Totò Riina (Nicola Calì) che stappa in solitudine una bottiglia di champagne per festeggiare la morte di Falcone è l’immagine qualunque di un uomo in lotta contro lo Stato e contro l’icona stessa del capo mafioso… In compenso, il realismo delle azioni di questi uomini, con le immagini dei funerali delle vittime di Capaci che passano continuamente nelle celle delle prigioni, è un costante richiamo – ancora una volta visionario ma calato nel tessuto del film– a responsabilità impossibili da cancellare.

L’invisibile anormalità di Cosa nostra, che Bellocchio preferisce al suo opposto, cioè la normalità mostruosa di un mondo comunque identificabile con la categoria della banalità del male, è tale che durante il maxi processo gli avvocati non capiscono le parole del pentito Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio), un siciliano stretto che sembra una lingua aliena; e allo stesso modo il povero presidente dell’aula bunker (il bravissimo Bruno Cariello) si rivolge con parole esasperate e imploranti ai boss lamentosi o strafottenti… Nessuno capisce l’altro, tutti sono rinchiusi nel medesimo spazio.

In questo teatro degli orrori storicamente riconosciuto, Buscetta è ancora una volta “un eroe dei due mondi” (soprannome che gli venne dato per via delle fortune accumulate in Italia e in Brasile grazie alla droga), una figura a metà: fuori dal mondo in cui era nato e in cui non si riconosceva più, dentro quello Stato che aveva sempre sfidato (o ignorato) e che avrebbe finito per aiutare. Il momento durante il processo Andreotti in cui l’odioso avvocato Franco Coppi (Bebo Storti) svela la presunta inattendibilità come teste di Buscetta, ingiusto da un punto di vista giudiziario (Buscetta era attendibile come pentito) e inevitabile da quello morale (Buscetta era un trafficante, un assassino, un mafioso, non si poteva certo trattare coi guanti) è la vera resa dei conti di Bellocchio verso il suo personaggio; l’abbandono del Boss rimasto solo, come scrisse Enzo Biagi, nelle grinfie di un professionista che fa semplicemente il suo lavoro.

Il rischio di simpatizzare nel corso del film è forte, ma Bellocchio, anche a costo di barattare le sue fulminanti illuminazioni con una narrazione impersonale e a volte impacciata (tutta la parte americana), non ha bisogno di rimarcare l’odiosità di Buscetta come assassino mai reo confesso (chissà se quell’omicidio finale è sognato dal protagonista o immaginato dal regista…) e nemmeno l’ambiguità di una figura malvagia eppure salvifica: a suo tempo lo fece lo stesso Biagi in una storica intervista ricostruita brevemente nel film, e non era dunque il caso di ripetersi. Gli basta, invece, a Bellocchio, mettere in scena il cortocircuito percettivo di cui lo stesso Buscetta, in quanto mafioso, era vittima, e attraverso la sua esperienza rappresentare l’insicurezza di noi italiani di fronte alla mafia. Tutti quanti – Bellocchio compreso – sappiamo coglierne i segni, ma nessuno ne comprende fino in fondo la natura, incapaci come siamo di distinguere la storia altra di Cosa nostra da quella ufficiale a cui troppo spesso si è sovrapposta o addirittura sostituita.