Quinzaine des réalisateurs

Zombi Child di Bertrand Bonello

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Forse siamo tutti morti, e ci trasciniamo in una post-vita, in attesa di una liberazione, come Clairvius Narcisse, ennesimo zombi a Cannes 2019, non di certo il meno importante. Il personaggio che apre il nuovo film di Bertrand Bonello, Zombi Child, è uno dei casi più noti di zombi haitiani, studiato dagli antropologi da più di quarant’anni: la sua storia, per intenderci, è all’origine del libro che ispirò Il serpente e l’arcobaleno di Wes Craven. Bonello, nell’ingorgo di morti viventi presenti nella selezione cannense sfiora le proprie radici, senza toccarle, se, come ha spesso affermato, è stato proprio Jim Jarmusch, con Stranger Than Paradise, a fargli capire che il cinema poteva essere un mezzo espressivo più adatto a lui, e più completo della musica. Eppure, viste le opere che  i due autori hanno portato alla Croisette, non si potrebbero immaginare due film più diversi tra di loro. Benché i riferimenti al cinema di genere siano leggibili in filigrana, da Tourneur a De Palma, lo spunto, la forma e la complessità del discorso politico di Zombi Child (senza la e finale, per rispettare la lingua creola) sono molto lontani dal cinismo cinefilo di The Dead Don’t Die di Jarmusch, e non solo per il fatto che quest’ultimo è, ovviamente, più americano. 

Il tema del morto vivente, perlomeno nella fascinazione per la pre-morte, o per la preter-morte, o per la morte simbolica, Bonello sembra sempre averlo avuto nel paniere: già una decina di anni fa era il motore narrativo in De la guerre, ma esplodeva poi, in maniera incontrovertibile, con aspetti esplicitamente à la Carpenter e à la Romero, in Nocturama. Ora, il regista nizzardo, con Zombie Child sembra non incontrare il piano di Jarmusch anche perché il suo è un ritorno volontario alla radice antropologica del fenomeno, e non una delle derivate iconiche (e quindi ciniche) possibili. Andare a girare ad Haiti significava anche, a distanza di 8 anni dal terremoto devastante del 2010, andare in un luogo dove la calamità ha riproposto nella più drammatica delle maniere la compresenza tra vivi e morti: Mélissa (Wislanda Louimat), una delle giovani protagoniste, quella di colore – contrapposta in maniera nettissima a Fanny (Louise Labecque), che è così francese da sembrare uscita dal pennello del Maître de Moulins – è la figlia di due vittime di quel fatto, cresciuta a Parigi con una zia mambo (che pratica quindi il vodoo), e iscritta, per i meriti politici della madre, alla più napoleonica delle istituzioni che si possa immaginare, la Maison d’éducation de la Légion d’honneur – un equivalente netto del Collegio delle fanciulle, per chi bazzica le istituzioni napoleoniche nostrane – destinata alle figlie di persone decorate con la più alta onorificenza attribuita dallo Stato francese. Bonello, che ai temi si avvicina “più per un’intuizione che non per per una tesi”, non esita però a forzare il dato, per costruire una geometria netta di rimandi: nel 1804, al contrario di quanto viene detto nel film dalla direttrice dell’istituto, la Maison d’éducation non è ancora stata aperta, lo sarà, per decreto dell’Imperatore, nel dicembre dell’anno successivo. Ma l’autore sa, e lo ricorda, che il 1804 è una data importantissima per Haiti, è l’anno in cui diventa la prima “république noire” al mondo, nonché la seconda nazione indipendente nel continente americano, e lo ribadisce anche la scritta in creolo “endepandance 1804” che si legge sulla parete della camera di Mélissa. Non ritiene necessario, Bonello, esplicitare che l’afflato che portò a quell’indipendenza fu alimentato proprio dal tentativo di reintroduzione della schiavitù nella colonia, da parte di Napoleone, nel 1802; e così ugualmente non viene rimarcato a parole, ma il fatto che Mélissa arrivi dalla prima colonia francese emancipata, a seguito dei fatti del 2010, e che sia l’unica allieva di colore della scuola, è di per sé evidentissimo segnale di un discorso post-coloniale, che entra in un gioco dialettico piuttosto interessante con la prima delle lezioni girate dentro la scuola, in cui lo storico Patrick Boucheron improvvisa per la macchina da presa una lezione sull’equivalenza tra i sostantivi Francia e libertà.

Già: libertà e schiavitù sono i due poli entro i quali si dipanano le vicende costruite in “montaggio convergente” da Bonello, un editing che culmina magistralmente in una scena di trance, e che per farlo si muove liberamente non solo nello spazio (tra due continenti) ma anche nel tempo (tra la contemporaneità, gli anni ’60 e il 1980); ma, se è vero che quasi sempre fa emergere il discorso politico attraverso le proprie scelte estetiche più che attraverso la scrittura testuale, non mancano elementi letterari, come d’altronde trovavamo in Nocturama, dove il timone concettuale era il Discours de la Servitude Volontaire (1548) di Étienne de la Boétie. In questo caso fa capolino il poema Cap’tain Zombi (1967) dell’haitiano René Depestre, che esplicita il significato politico della figura del morto vivente nella tradizione haitiana, simbolo della schiavitù, della servitù involontaria; una tradizione culturale dove il vodoo può essere anche tramite di liberazione. È un film sulla trasmissione della libertà, Zombi Child. Solo un’adolescente delusa (o delusional) come Fanny, può pianificare un gesto di pura appropriazione culturale (non è ovviamente l’unico, nel film) e pensare di comprare, a cuor leggero, un rito per rientrare in comunione con il ragazzo che le ha spezzato il cuore; di comprare l’illusione che la liberazione da un asservimento psicologico, da una pulsione, possa essere davvero libertà.