Fuori concorso

Jeanne du Barry di Maïwenn

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Du Barry Was a Lady titolava nel 1943 un musical piuttosto divertente di Roy Del Ruth, dove la favorita e il re erano interpretati da Lucille Ball e Red Skelton (e musiche di Cole Porter e coreografie di Charles Walters). Avrebbe potuto essere un titolo di Lubitsch, che invece aveva portato sullo schermo la storia di Jeanne nel 1919, in un filmone storico tutto passione, dinamismo e invenzioni visive che lo fecero soprannominare “il Griffith europeo” (lei era Pola Negri, il re Emil Jannings). Poi ce ne sono stati altri, lussuosi e più tradizionali, attraversati da bellezze come Dolores Del Rio e Martine Carol, mentre nel Marie-Antoinette di Sofia Coppola era Asia Argento a conferire un fascino non convenzionale (occhiaie, capelli scuri, sguardo sfrontato) alla rivale della “Delfina”.

E oggi arriva Maïwenn, protagonista, sceneggiatrice e regista della versione contemporanea della storia di una donna maestra di seduzione e patrona delle arti, tanto intelligente, colta, sensuale, brillante da farsi strada dalla campagna nel demi-monde parigino settecentesco e da ascendere al ruolo di favorita di Luigi XV, che mantenne dal 1768 alla morte del re, nel 1774. Storia ricchissima di spunti, e di tracce, generi, immagini sedimentate dal passato. Considerato il budget (molto alto) poteva essere uno sfarzoso mélo avventuroso, un intreccio di trame, conflitti, inganni, seduzioni di corte; o uno scavo più moderno nella psicologia e nel riscatto femminile, un gioco scherzoso e amaro sul ruolo e la forza delle donne; o, considerato che è praticamente tutto ambientato tra interni ed esterni dei palazzi reali, un’analisi lucida del potere. Purtroppo Jeanne Du Barry non è nessuna di queste cose, ma una successione di scene e momenti, incontri e battute (assolutamente prevedibili), intervallati da quadri, vedute d’insieme in campo lungo, di maestosi saloni, tutti arazzi, tappeti e specchi, di Versailles e dei suoi giardini, di  boschi e cieli. Siparietti tra un episodio e l’altro, tutti molto “pittorici”, spesso citazioni dei dipinti d’epoca. L’immobilità complessiva della messa in scena riproduce quella dei personaggi: non c’è una psicologia in evoluzione in questo film, compresa quella di Jeanne (sempre uguale a se stessa, dall’adolescenza alla regalità). Per non parlare delle figlie del re, che hanno la duttilità di una caricatura, mentre Maria Antonietta è poco più di un’evanescente comparsa. E Luigi XV, certo, era vecchio e stanco, ma forse aveva un po’ più di nerbo dell’intristito nonno di Jack Sparrow cui Johnny Depp dà un corpo fragile e un viso rigonfio.

Marie-Antoinette di Sofia Coppola, con la sua vitalità, le sue invenzioni, la sua rabbiosa voglia di vivere, è lontana. Come è lontanissimo (del tutto estraneo) un altro riferimento d’obbligo, almeno per quanto attiene i giochi di potere e di corte, il rosselliniano La presa del potere da parte di Luigi XIV, che la scena della mattutina toilette regale richiama. Purtroppo invece è dietro l’angolo un altro gigante, cui palesemente Maïwenn si rifà: Stanley Kubrick, con il suo Barry Lyndon, del quale sono evidentemente mimate certe scene in interni quasi a lume di candela e immagini in campo lungo di turneriana solennità (ma c’è anche una visibile steadicam in un corridoio del palazzo). Mancano invece i sussulti erotici kubrickiani: perché in questo film che racconta la storia di una cortigiana e dei suoi amanti, la sensualità (delle immagini, non delle parole) è del tutto assente.