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Fahrenheit 11/9 di Michael Moore

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Non in molti se lo ricordano, ma quando nel luglio 2016 Michael Moore scrisse sull’Huffington Post un articolo sui 5 motivi per cui Trump vincerà furono in pochi a prenderlo sul serio. D’altra parte Moore non è nuovo a boutade e prese di posizioni chiassose, la sua intera carriera è qui a dimostrarlo: l’ha sempre fatto sui giornali e in tv, e i suoi film ne sono pieni. Dunque perché quella volta avremmo dovuto dargli credito? L’ascesa di Trump alla carica politica più importante del mondo è stato in effetti un evento surreale, ancora di più se spostiamo il nostro punto di vista negli Stati Uniti, dove nessuno, nemmeno nel Partito Repubblicano, prese sul serio la sua candidatura fino a che la sua corsa si dimostrò sorprendentemente inarrestabile persino per lui stesso. Dunque come siamo arrivati a questo punto? O meglio, come dice Moore, How the fuck did this happen? Come cazzo è potuto succedere?

Il cinema di Michael Moore è ed è sempre stato un’arma di costruzione ideologica di massa. Nel bene e nel male. Il suo interesse è in un certo senso inseparabile dai suoi effetti reali nella società. Eppure quando le sue argomentazioni a tesi non riescono a farsi largo in modo lineare i suoi film sanno essere persino più interessanti. Fu così per Bowling for Columbine, che nell’enumerare tutte le condizioni che hanno reso gli Stati Uniti il paese con la legislazione più permissiva al mondo riguardo al possesso di armi di fuoco si ferma sulla soglia della domanda più insidiosa: perché in Canada, dove esistono le medesime condizioni, le stragi di massa con armi da fuoco non avvengono? È il grande interesse delle spiegazioni a tesi, che solo gli stupidi possono pensare che siano meno interessanti di quelle che si presumono più “complesse”: è proprio quando si incontra il limite di una tesi che qualcosa di interessante (e di inspiegabile) può emergere.

E allora qual è la ragione che ha portato Trump alla Casa Bianca? Com’è possibile che gli Stati Uniti siano diventati il paese dei Kavanaugh, di Charlottesville, delle deportazioni dei minori e persino (notizia di ieri) della guerra ai transgender? Di chi è la colpa? Della legge elettorale? Della pessima campagna di Hillary Clinton? Del Partito Democratico che nemmeno con Obama è riuscito a frenare la sua deriva neoliberista? Del Nafta? O di una battaglia personale di Donald Trump con la CBS, quando ha scoperto che il suo cachet per The Apprentice era meno di quello di Gwen Stefani per The Voice? (che pare essere il motivo della sua prima uscita pubblica come candidato alla Presidenza)

Fahrenheit 11/9, cioè l’armageddon del 9 novembre, quella mattina del 2016 in cui gli Stati Uniti si sono svegliati con il più improbabile (e pericoloso) Presidente della loro storia, è senza dubbio uno dei film più squilibrati, confusi e disordinati che Michael Moore abbia mai fatto. Eppure, paradossalmente, sta proprio lì la sua originalità e il suo motivo di interesse. È quando Moore prende congedo dalla spiegazione dell’inverosimile (e relativo, dato che ha preso meno voti) successo di Donald Trump che il film inizia a farsi interessante. È quando il suo sguardo si allontana dalle idiosincrasie e dagli aneddoti personali di “The Donald” che qualcosa di inaspettato comincia finalmente a emergere. I processi sociali che hanno investito gli Stati Uniti degli ultimi due anni rifuggono da letture unilaterali: dallo scandalo dell’acquedotto di Flint, con migliaia di persone che per mesi hanno bevuto acqua contaminata al piombo (per un misero e inutile progetto di privatizzazione del sistema idrico), all’incredibile March For Our Lives, con dei ragazzini delle sue scuole superiori che sono stati capaci di dettare l’agenda politica nazionale, in America è successo tutto e il contrario di tutto. E se è vero che il deficit di democrazia dell’America di Donald Trump ha raggiunto livelli di guardia (anche se il paragone con la Germania degli anni Trenta è senz’altro la parte più debole del film), è anche vero che gli Stati Uniti hanno visto negli ultimi anni un’incredibile e inaspettata rinascita della sua sinistra.

Da Alexandria Ocasio Cortez, la candidata socialista (una parola che incredibilmente sta rinascendo proprio nel paese di Joseph McCarthy) e ventottenne del Bronx che ha stravinto le primarie contro la corrente clintoniana del partito, a Richard Ojeda, che nella repubblicanissima West Virginia da ex-militare sta facendo rinascere la sinistra («Perché i nostri paesi di provincia sono messi peggio di quelli che ho visto in Afghanistan»), c’è un’ala sinistra del Partito Democratico che sta mettendo in crisi l’egemonia centrista neoliberale.

Moore compie in questo film una bellissima e commossa panoramica di queste varie esperienze di lotta e di partecipazione dal basso, ancora poco note in Europa, che costituiscono però secondo il regista l’unica possibile spina nel fianco del successo tossico di Trump. Sono finiti i tempi di Wesley Clark (l’ex generale centrista candidato alle primarie presidenziali che lo stesso Moore anni fa sostenne), oggi sono gli insegnanti delle scuole pubbliche del West Virignia o la diciottenne Emma Gonzalez (quella che Leslie Gibson, una delle leader del Partito Repubblicano, ha definito una «skinhead lesbian») i veri protagonisti di un’America di sinistra che vuole svegliarsi dall’incubo del trumpismo.

E il film ha anche tra i suoi vari obiettivi quello esplicito di “tirare la volata” alle elezioni di midterm che si terranno il prossimo 6 novembre e che costituiranno il vero banco di prova del consenso della nuova Presidenza a un anno e mezzo dalla sua elezione. Nonostante la grande esposizione mediatica, è improbabile che Michael Moore possa avere una qualche incidenza elettorale, ma certo il suo radicale e arrabbiatissimo film (che non si risparmia nemmeno una violenta stoccata a Barack Obama) è il segno che qualcosa in America sta accadendo. Anche nel punto più basso della sua crisi democratica.