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Green Book di Peter Farrelly

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New York, 1962. Nick Villalonga è un italoamericano dai modi spicci: lavora in un locale notturno e non disdegna le maniere forti quando deve risolvere qualche grana per il suo capo. Vive dalla nascita nel Bronx e frequenta da vicino, senza immischiarsi troppo, i mafiosi di zona che sembrano comparse de I Soprano. Ha una moglie che ama e una famiglia allargata pronta a invadergli la casa per vedere una partita di baseball. È un uomo tutto terreno: parla, fuma, mangia senza sosta e nasconde, dietro toni bonari, le tracce di un razzismo istintivo, quasi naturale. Quando il night club dove lavora chiude per un periodo, Nick è costretto a cercare lavoro. Ne troverà uno tanto inaspettato quanto ben pagato: fare l’autista per un eccentrico pianista giamaicano, Don Stanley, e accompagnarlo per un tour di concerti nel Sud degli Stati Uniti, ancora funestati dal segregazionismo. Don è il contrario di Nick: salutista, silenzioso, colto, ricco, con un alcolismo sotterraneo da controllare e pulsioni sessuali da nascondere. Nick è un bianco integrato nella sua comunità, ma che non conosce e non appartiene a nessun mondo se non al suo; Don vive in un paese in cui non è nato, parla mille lingue ma non si sente capito da nessuno: è nero e ricco, un binomio che suscita fastidio nei bianchi e sospetto nei membri della sua stessa comunità. Per la prima parte del film la strana coppia si studia, poi impara a conoscersi e a rispettarsi, finendo per riconoscersi e accettarsi nella sua complementare diversità in un crescendo emotivo costruito con mestiere.

In Green Book – il titolo deriva dal The Negro Motorist Green Book, la guida stradale che segnalava i (pochi) locali accoglienti nei confronti dei viaggiatori di colore – Peter Farrelly usa un tono lontano dalla comicità demenziale dei suoi grandi successi, ma l’abitudine alla commedia regala ritmo e ironia a un buddy movie che, ancorato alla verità storica da raccontare e alla necessità morale da ribadire, rischierebbe altrimenti un eccesso di retorica. E invece Green Book scivola via dolcemente, aggiungendo alle frizioni dei due improbabili compagni di viaggio un tocco di approfondimento psicologico, caricaturizzando personaggi e situazioni in maniera funzionale, riuscendo a moderare l’enfasi. Le dinamiche funzionano grazie all’interazione – un’attrazione tra opposti – dei due attori protagonisti: l’ingrassato Viggo Mortensen, logorroico e ciondolante, indolente e minaccioso, biascica il suo slang e occupa fisicamente l’inquadratura mentre Mahershala Ali tratteggia il suo personaggio con una fisicità ieratica, quasi astratta, raggiungendo momenti di intensità emotiva cesellati in levare.

Green Book si alimenta in fondo della sua stessa prevedibilità, intrattiene con una patina scintillante intrisa dei toni impastati del Sud, riempie la narrazione di musica e colori, scandisce il racconto alternando commedia e dramma: mantiene insomma quel che promette. È una forma di intrattenimento brillante, un prodotto confezionato ma onesto, in quanto consapevole della propria natura. Con delle regole d’ingaggio così chiare è facile farsi sedurre dagli screzi e dalle riconciliazioni dei protagonisti, empatizzare con i loro tic e con le loro debolezze, indignarsi per le ingiustizie del becero razzismo degli stati del Sud (la discesa geografica, dall’Arkansas all’Alabama, è un’immersione negli inferi delle Jim Crows Laws, che all’inizio degli anni Sessanta mostravano con ferocia l’arroganza del proprio potere). Green Book, insomma, è un compito ben svolto, senza sussulti o sorprese, che ci conduce con naturalezza verso l’ovvio finale edificante senza pretese né mistificazioni. Un intrattenimento onesto, vitale, compiuto che però addolcisce fin troppo un tema ancora attuale, limitando al passato il suo raggio di riflessione per evitare, in maniera consolatoria, di sporcarsi le mani con gli echi razzisti che ancora risuonano minacciosi nel nostro presente.