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Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis

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Maria cammina veloce, con il cappuccio della felpa in testa a coprirle lo sguardo, accompagnata da una cagnona che, tautologica, si chiama “cane”. Attraversa decisa cumuli di rifiuti, abita una terra senza pace appoggiata al fiume Volturno, che assomiglia a una sterminata discarica a cielo aperto più che a un litorale. Avvicina giovani donne incinte, per lo più prostitute, per accompagnarle a vendere i loro futuri bambini a chi può permettersi l’acquisto della maternità. Una sorta di Caronte, insomma: anello di congiunzione tra un’umanità umiliata e il potere del malaffare senza morale. Maria mostra poche emozioni, ma è sull’orlo dell’eruzione: quando scopre di aspettare anche lei un bambino – quando sente cambiare il proprio corpo, che ha sempre cercato di ignorare – le diviene impossibile sopportare la routine di sfruttamento e continuare l’inseguimento di Fatima, giovane donna in fuga decisa a tenersi il figlio che verrà. Da soggetto Maria diventa oggetto, vittima delle mire e delle minacce di un’ingioiellata pseudo-mammana eroinomane che è a capo del traffico di neonati.

Edoardo De Angelis, come già in Indivisibili, parte da un personaggio – in quel caso “raddoppiato” – per calarlo in una geografia, fisica e umana, dominata dal degrado, fisico e umano. Maria è una Madonna guerriera asservita a una legge che appare immutabile, capace infine di scoprire, grazie a una maternità inattesa quanto misteriosa, un barlume di amor proprio. La prima parte di Il vizio della speranza – titolo ispirato a una frase di Giorgio Scerbanenco, utilizzata come esergo del film – mostra il talento per la messa in scena di De Angelis, che impasta luci e colori creando un effetto iperrealista e disturbante, asseconda il ritmo del racconto alla musica, inventa un mondo ancestrale in continuo chiaroscuro.

L’evoluzione della narrazione però si sovraccarica ben presto di un impianto simbolico parossistico. La via crucis al femminile della protagonista, funestata da un’onomastica mariana – oltre a Maria ci sono Fatima, Virgin e via dicendo – intrusiva e didascalica, si tinge quindi di un tono liturgico ossessivo e ridondante e di una lettura rovesciata e ambigua del femminile (gli uomini, come lo Stato, quasi non esistono, se si esclude un giostraio marginale che si tramuta in strumento di salvezza; le donne governano – male – il mondo), fino al lirismo scivoloso della preghiera laica che accompagna il mistero del parto. De Angelis si trova così schiacciato tra la pretesa metaforica e il tono, forse a lui più congeniale, da scorticato melodramma popolare, sottolineato dalle (belle) musiche di Enzo Avitabile. La precarietà dell’equilibrio (sorretto dalla prova convincente delle attrici protagoniste, Pina Turco e Marina Confalone) che non silenziava la potenza di Indivisibili qui travolge il film, che si frantuma e scivola limaccioso verso un finale figurativo che sfida il cattivo gusto tra ralenti, cavalli e natività ridotte a illustrazioncine dolenti. Un vizio di forma, dovuto soprattutto all’ansia metaforica e all’enfasi di scrittura, che soffoca quello della speranza evocato dal titolo.