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Tonya Harding, la prima donna americana ad aver eseguito un triplo axel nella storia del pattinaggio apre le scene, guardando dritto negli occhi lo spettatore in quella che sembra, a tutti gli effetti, un'intervista. Lo stile documentaristico è il motivo portante dell'ultimo film di Craig Gillespie, la cui impalcatura consiste in una serie di personaggi chiamati a raccontare la propria versione dei fatti in merito al grande scandalo che ha interessato la protagonista nel 1994.

Una storia vera, dunque, ma che tanto vera non sembra. Lo sguardo obiettivo del documentario, nella sua presunta onestà, viene sfruttato dal regista in opposizione a una finzione esasperata al punto da coinvolgere gli stessi personaggi nell'atto creativo - “non è così che è successo veramente”.  Non è mai chiaro, infatti, se ciò che è dichiarato coincide con la realtà dei fatti o se è la versione, mai unanime, di una delle voci del coro. La verità, procrastinata scena dopo scena, non è mai definitiva - nemmeno alla fine, durante i titoli di coda, quando intervengono i filmati d'archivio dei reali protagonisti.

La frammentazione dei punti di vista viene riflessa sul piano visivo dal continuo cambio di formato e di qualità dell'immagine. Una transizione brusca e senza soluzione di continuità che riproduce l’estrema facilità di passare da una prospettiva all'altra, da un intervento all'altro, dalla verità alla menzogna. Il gioco sta proprio in questo: nella scelta al limite del paradossale di narrare una storia vera e allo stesso tempo affidarsi alla soggettività di chi la racconta, di mettere in scena un evento realmente accaduto contaminandolo con dettagli di pura finzione, e infine di utilizzare la forma tipica del cinema documentario avvalendosi di attori e non di persone autentiche. Persone che, peraltro, in linea con un’estetica del sintetico, sono caratterizzate all'estremo fino a diventare maschere teatrali, figuranti di uno spettacolo dove anche i sentimenti divengono puro artificio.

Un'esibizione pirotecnica di forma e colore, esaltata da una colonna sonora esplosiva e complice del dinamismo di un film che interpella lo spettatore a intervalli regolari. È proprio la musica che, per contrasto, permette a Tonya di distinguersi rispetto alle avversarie e di rimanere sé stessa – quella stessa bambina che, per diventare una reginetta di bellezza con una costosissima pelliccia, la fabbrica con i conigli che ha scuoiato nei boschi insieme al padre, e la giovane donna che, per diventare l’esatta incarnazione della femmina americana, nasconde i lividi sotto stati di trucco e veste il migliore sorriso.

Il film riesce totalmente nel veicolare un’atmosfera in perfetto stile anni ’80 – non solo nell’ambientazione, ma anche nell’uso eccentrico, caotico e pop che fa delle proprie materie prime. I, Tonya è come il costume della sua protagonista: vistoso, colorato, rappezzato e confezionato a partire da elementi eterogenei.

Una forma che è parte di un’altra dialettica, quella tra l’apparire e l’essere, che interessa tanto l’estetica del film quanto i suoi personaggi. La narrazione portante è quella espressa dai giudici conformisti delle gare, che vorrebbero costringere Tonya a rispecchiare l’immagine della perfetta fidanzatina d’America. Allora l’accostamento del Vivaldi per la performance di un’avversaria e della musica rock-metal per la sua esibizione è l’esatto parallelo, in versione “cresciuta”, delle bambine-reginette di bellezza e della piccola Tonya-cacciatrice. Ma se la maturazione, e di seguito lo scandalo, contribuiscono allo scopo di un perenne spiccare sul resto del mondo, nondimeno allontanano, fino a bandirla, la protagonista dalla scena del pattinaggio. Al punto che ora, nel vedere Tonya sul ring in un montaggio alternato che accosta l’eleganza di un salto sul ghiaccio alla rozza caduta dopo un pugno in faccia, la sostituzione sembra essere definitiva.

E pare, inoltre, operare un equilibrio – una coincidenza, quasi – tra aggressività e violenza, da una parte, e bellezza e sensualità, dall’altra. Lo splendore di un sorriso che racchiude autorealizzazione e amor proprio è rigorosamente associato al sangue che esce dalla stessa bocca dopo un combattimento; e lo slow motion, che enfatizza i movimenti assimilandoli in una coreografia allo stesso tempo bellissima e cruenta, funge da trucco per mascherare i segni di una violenza sensuale – un Eros ai limiti dello Thanatos – che sulla protagonista sono coperti, similmente, dal make-up esagerato delle esibizioni di pattinaggio. Sensazioni agli antipodi, mescolate e confuse in perfetta rima con quel sentimento ibrido di amore/odio che Tonya deve soddisfare, a comando, per rispondere alle esigenze dell’audience – innanzitutto americana.

I, Tonya è dunque un puzzle da ricomporre, un film che procede inesorabilmente verso una dispersione caotica e frenetica, un movimento centrifugo richiamato all'ordine dall'unico evento cruciale, "il motivo per cui tutti siete qui".