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Ramiro possiede una libreria nel centro di Lisbona dove vende libri usati, ha un gusto letterario assai raffinato e, benché non ami gli venga ricordato, è un poeta (dopo la pubblicazione di un volume coi suoi versi non è più stato in grado di scrivere una riga).

Il protagonista dello splendido film di Manuel Mozos non ha nulla del poeta maledetto, e tanto apprezza la letteratura colta e ricercata – e è insofferente al successo di autori alla moda ma privi di qualsiasi talento – quanto la sua vita sembra un avvicendarsi di situazioni da telenovela latina.

Ha una relazione tranquilla con una coetanea, dolce e paziente, fa da tutore a un’adolescente incinta che vive con la nonna ormai malata di Alzheimer e passa le giornate nella sua libreria col collega e il cane e al bar con gli amici che lavorano in stamperia. D’improvviso però tutto cambia quando l’anziana vicina gli consegna una stecca di sigarette da portare al figlio in carcere, reo di aver ucciso la moglie per gelosia e – colpo di scena – padre della ragazza incinta che si credeva orfana fin dalla nascita. Uscito di prigione il misterioso figuro si installa in casa di Ramiro, monopolizzando salotto e tv e trascorrendo le ore davanti a una soap opera portoghese, la stessa seguita dalla madre, che per certi aspetti sembra ripercorrere le vicissitudini passionali dell’uxoricida.

Il tutto mentre Ramiro ricomincia a scrivere poesie.

La bellezza del film di Mozos sta tutta nei dettagli, poiché, apparentemente, l’esistenza del protagonista sembra non essere mai veramente toccata dagli eventi, ma si trascina monotona e ripetitiva. In realtà i cambiamenti avvengono sempre per reazione. Ramiro ricomincia a scrivere quando il suo poeta di riferimento, Jaime França, viene ricoverato in ospedale; si pone delle domande sulla ragazza incinta (chi è il padre del bambino?) solo quando viene a contatto col genitore della ragazza; il rapporto con la compagna diventa più appassionato dopo che la professoressa dell’adolescente inizia a corteggiarlo in maniera goffa e impacciata.

Ramiro assomiglia per moltissimi aspetti a Paterson di Jim Jarmush, ma mentre Paterson era un film ironico e tragico sull’impossibilità di narrare la realtà in maniera nuova, di inventare un immaginario altro, non ancora raccontato, di organizzare il tempo, vuoto e alienante, attraverso il ritmo dei versi, Ramiro sorprende per il tono beffardo in cui la circolarità delle situazioni continuano a prendere alla sprovvista il protagonista che non ha alcun moto né di ribellione e nemmeno di speranza in un futuro aperto da una pagina bianca, semplicemente accetta lo stato delle cose, in tutta la sua assurdità.

Da questo punto di vista i finali dei due film sono speculari e opposti.

In Paterson il cane della coppia fa a pezzi il quaderno in cui il protagonista annota le sue poesie, tentando – sforzo inutile – di raccontare una realtà già raccontata, già parlata, cercando di infondergli un ritmo, un respiro, differente rispetto a quello reiterato con cui avanzano i suoi giorni. Il falso movimento costante in cui è immersa la vita di Paterson ha uno scossone grazie al trauma prodotto dal gesto inconsapevole del cane. Ancora turbato dalla perdita, l’uomo torna alla cascata dove era solito scrivere i suoi versi. Accanto a lui siede un giapponese, anche lui poeta, venuto a visitare la città. Trovando la professione del protagonista, autista di bus, “poetica” gli regala un quaderno nuovo, intatto, pulito, in cui annotare, chissà, forse dei versi. In fondo la pagina bianca può offrire molte più possibilità. Magari riuscire davvero (o forse no) a fare tabula rasa di tutto quello che è già stato scritto, pensato, immaginato, rassomigliato, e ricominciare daccapo, trovando davvero una voce diversa, un’immagine nuova, ciò che non è mai stato detto. Il film di Jarmush si chiude dunque con un dubbio, benché assai relativo.

Ramiro, al contrario, non lascia alcun dubbio a riguardo. Andato a bere (molto, come al solito) in un baracchino lungo la strada, il protagonista si fa malmenare e derubare sulla strada di casa dei pochi soldi che ha in tasca ma soprattutto della cartella in cui tiene il quaderno dove ha ricominciato a scrivere. Scosso più per la perdita del quaderno che per il fatto di essere stato aggredito, Ramiro riprende la sua vita come se niente fosse, almeno apparentemente – l’adolescente ha ormai partorito, il figlio della vicina è ripartito, la compagna è sempre, più o meno, al suo fianco, così come gli amici. In tutto questo il protagonista non ha avuto né la voglia né il tempo di ricomprare un quaderno vuoto e riprendere a annotare qualche verso.

Passeggiando in un mercatino dell’usato, dove è solito comprare libri, si imbatte in uno dei suoi aggressori, senza riconoscerlo, vedendo esposta la sua cartella ma soprattutto il suo quaderno. Intuendo il suo interesse, il venditore gli propone di comprare la cartella di pelle (20 euro), che Ramiro però lascia sul banco, decidendo invece di riacquistare solo il suo quaderno alla modica cifra di un euro. Un po’ confuso Ramiro si allontana, quaderno tra le mani, iniziando a rileggere i suoi versi, quasi fossero di un altro. Nessuno in particolare