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Non m’importa chi abbia ragione e chi torto / non proverò a capire  / lascia che il diavolo si prenda il domani  / Signore, stanotte ho bisogno di un amico"

Il passato ormai è alle spalle / e il futuro non lo vediamo / ed è triste essere soli / aiutami a superare la notte...”

Kris Kristofferson, Help Me Make It Through the Night

Dissolvenze incrociate introducono la città di Stockton, California; edifici e vetrine, insegne e cartelli segnaletici, gente che cammina per strada e anziani seduti con le mani in tasca o su lattine di birra; c’è una coppia che discute, un cliente con aria dimessa dal barbiere: la gente del posto.

In una manciata di secondi illuminati dalla fotografia di Conrad Hall, e sulle note della chitarra di Kris Kristofferson, il sessantaseienne John Huston conduce lo spettatore in un milieu che, ironizzando sull’originale titolo-antifrasi del film (Fat City, 1972), è mille miglia lontano da un El Dorado o da una Terra Promessa ove attendere la concretizzazione dell’American Dream. All’esterno il sole, prima che la m.d.p. si focalizzi su una squallida stanza d’hotel: qui, un uomo è sorpreso a letto con lo sguardo perso tra lenzuola spremicciate, reduce da una notte di bisboccia – probabilmente l’ennesima, come suggerisce la fiaschetta mezza vuota di whisky sul comò.

Sigaretta in bocca, l’uomo si alza un po’ di malavoglia, in cerca di un accendino tra scartoffie, disordine e altre bottigliette vuote. Si risiede, guarda fuori, poi si veste e i credits d’apertura (solo allora) lo accompagnano tra spogli corridoi verso l’uscita. Ma non sa dove andare: dopo qualche esitazione rientra per recuperare una borsa, mentre la camera indugia su dettagli sordidi, cassetti rotti e un cesto strabordante di barattoli, poi esce di scena.

Nel frattempo scopriamo che il film è tratto da un romanzo di Leonard Gardner, sui boxeur professionisti di terz’ordine che solo debolmente comprendono come nessuno, tra essi, riuscirà mai a guadagnare tempo: privo dei soliti cliché, il testo brucia d’oscuro pessimismo mentre i personaggi escogitano un’esistenza rabbiosa, consapevoli dell’inevitabile fallimento.

Un incipit tra i più toccanti della New Hollywood prelude a un assunto che ben si adatta al climax, dolente e pessimista, della produzione a stelle e strisce i cui apologhi di dropout e miserie hanno sostituito lo sfarzo e il mendacio delle magne confezioni. Città amara non fa eccezione, e che sia diretto da un maestro di quel cinema, alla sua ventisettesima fatica, suggerisce che tale operazione segni una sorta di spartiacque tra il prima e il dopo.

Lo stretto dualismo mito-leggenda, permeato di gloria dei seguenti L’uomo dai sette capestri e L’uomo che volle farsi re, qui assume connotazioni distanti anni luce da eroici bagliori: non è un caso che Città amara sia anche il film che Huston dirige negli States una decina d’anni dopo il non meno crepuscolare Gli spostati.

Ancora una volta il cerchio si stringe: il film, scrive Franco La Polla, è la precisa, obsoleta allegoria del pugilato quale «referente della lotta quotidiana dei reietti, degli emarginati, dei dimenticati, degli anonimi, mostrando fra l’altro uno spaccato generazionale con intenzioni che rivelano subito la loro natura sociale e morale, e d’altra parte pone estrema attenzione all’ambiente di questo quadro e alla sua indifferente estraneità».

Gli ultimi bagliori del crepuscolo cedono il passo a palestre semivuote, dove la presenza dei principali personaggi non basta a colmare lo spazio: minuscole pedine in cerca d’utopico riscatto, consci in partenza di tale illusione, Billy Tully (Stacy Keach), l’uomo visto all’inizio, conosce il più giovane Ernie Munger (Jeff Bridges), si allena con lui e lo invita a sferrare colpi a due riprese. «Ragazzo mio, hai stoffa: se te lo dico io puoi crederci, non sciupare gli anni migliori», gli dice. Ma Billy è ormai logoro e vicino ai trenta, e da un pezzo fuori dal giro; non s’allena da un anno e lamenta un muscolo stirato. Privo di esperienze sul ring, Ernie fa pugilato per divertirsi e fare un po’ di moto; quando rivela a Tully di averlo visto combattere, questi gli chiede «E ho vinto?», ma la risposta negativa del ragazzo non lo stupisce.

Come per Gardner, la nobile arte è argilla tra le mani di un cineasta dall’esistenza e dalla carriera avventurose (studente universitario praticò il pugilato dilettantistico e vinse un campionato), ma in Città amara la nitidissima eco hemingwayana fa il paio, osserva Kezich, con una pietà da lettore di Dostoevskij.

Ulteriore riprova si ha quando Billy è al bancone d’un bar avvolto in una semioscurità da quadro di Hopper, con alcuni avventori al biliardo e una fila al bancone; intristito, sorseggia un whisky, mentre gli si avvicinano Oma (Susan Tyrrell), una nevrotica debosciata che sbraita sempre su tutto, e il suo partner. Il protagonista accenna alla possibilità di far di Ernie una promessa, riconoscendo in lui la grinta di cui egli stesso disponeva in passato: ma né Oma né gli avventori paiono granché interessati a ciò che biascica. Gli “urrà” sono gridati senza entusiasmo, e la donna strilla le proprie lamentele senza curarsi dell’attenzione che richiama. Lo sguardo è sempre documentaristico (Huston non scorda di aver realizzato penetranti report di guerra), addirittura neorealista, solcato da facce del tempo che restituiscono l’esattezza d’una realtà sofferente come i match sul quadrato.

Dietro raccomandazione di Billy, Ernie si reca per un provino dal suo trainer Ruben Luna (il Nicholas Colasanto che in tema pugilistico ritroveremo in Toro scatenato, nel ruolo di Tommy Como): questi e il suo secondo gli raccontano aneddoti su Tully, sostenendo di averne fatto un campione, prima che un breve disgraziato matrimonio e conseguenti insuccessi lo portassero al declino. Constatato il talento del giovane, il trainer pensa che potrebbe diventare un buon peso massimo («Well, maybe he can, if he just listen to me and let me put everything I know into him», confessa a letto alla moglie insonnolita) anche perché, una volta tanto, ha trovato un bianco: pugili neri ce ne sono troppi; ma la moglie continua a ronfare.

Fanciulleschi onirismi o discorsi sulla gloria – addirittura si parla di portare gli atleti in Inghilterra – girano a vuoto come i cazzotti: nessuno prende sul serio nessuno, l’apatia ha preso il sopravvento. Pare niente, ma dietro fotogrammi edificati su una mise-en-scène classica e semplice è racchiuso il significato di tutto il film: l’esistenza non ha senso, ci si arrampica sugli specchi all’ineludibile prezzo della solitudine.

Per sbarcare il lunario, raggranellare qualcosa e illudersi di riacquistare forma, come Tully e più tardi anche Ernie, si tira a campare raccogliendo verdura insieme a vecchi e a povera gente: eppure, nonostante la fatica, sul campo assolato della San Joaquin Valley sembrerebbe scorgersi l’unico filo di speranza atto a restituire alla vita il gramo valore rimasto. Ci si contenta di poco, vivere è una lotta. La saggezza nel sangue.

Ridotti a dicerie fini a sé stesse, i ricordi non sopperiscono le difficoltà del quotidiano trantran, che si tratti di rimuovere un’auto da una pozza fangosa sotto il diluvio o sposare una ragazza incinta.

Né basta la cattiveria o la fiducia in sé stessi contemplata da un giovane boxeur di colore, e spacciarsi per pugili irlandesi è una stronzata.

Ci si illude di aver la meglio sull’avversario quando l’esito è poi un sonoro KO tecnico; e tutti i giovani agonisti di Luna, nonostante i suoi vani auspici, non possono che incassare una sconfitta dietro l’altra. Ernie finisce con lo sposarsi presto come già Tully, comprendendo quanto effimero sia il sogno («Well, I won some, lost some», dirà all’amico celando la verità). Far l’amore è più stimolante che incassare colpi: l’esordio sul ring non importa molto. Nessuno dice o fa davvero ciò che pensa, né è come dice di essere («Questo ragazzo è flaccido dentro», rivela Billy al giovane nel finale, contrariamente a quanto affermato all’inizio); benché palese sia l’infelicità, ostinati non si vuole capitolare. Il resto sono cicalecci per nascondere il fallimento: ma l’esistenza impone di non arrendersi, mai, anche nel più grigio dei mondi possibili. Tertium non datur.

Si vagheggia d’imbattersi in una donna, anche in una sciroccata quale Oma (il cui compagno è in galera), o trovare un sodale per non esser soli (non a caso, in sottofondo fa capolino You’ve Got a Friend).

«Puoi contare su di me», ripete Billy uscendo dal tetro locale con Oma, entrambi brilli e sorridenti.

Una felicità effimera, che suona più come coazione a ripetere: la convivenza è una non-vita a base di tabacco, bevute, sciatteria, rimpianti (a un certo punto, la donna fa indossare all’uomo la giacca dell’ex partner).

Disastroso è il tentativo di preparare la cena – culminante nella bottiglia di ketchup rotta da Tully nel disperato tentativo di far mangiare una bistecca a Oma – e inutile espellere la rabbia battendo la testa contro un juke-box.

Mai come in Città amara la white trash è restituita in modo altrettanto verace, siamo lontanissimi dal riscatto del grigiore à la Rocky: un quid che solo in Clint Eastwood si riscontrerà nella commovente vicenda di Maggie Fitzgerald, il cui rapporto paterno-filiale non poco deve a quello tra Billy ed Ernie (o tra Ruben e i propri atleti).

Non c’è discrepanza tra vincere o bere prima di un incontro. L’ultimo round è una sfida con ciò che resta dell’esistenza nei rancidi bilanci. L’avversario da affrontare è un messicano, ostico ma anche lui avanti con gli anni, e tanto logoro da pisciar sangue quando orina: il match, nello strepitio della folla, è un patetico show di cariatidi, che Tully vince ai punti ma con zero entusiasmo.

Il messicano è l’ultimo a uscire dall’arena, mentre le luci si spengono poco a poco: un viale del tramonto in piena regola.

Il compenso, per tale estrema (coatta) vittoria, ammonta a cento pidocchiosi dollari. Il déjà vu persiste: allontanandosi imprecante da Ruben, Billy ricorda d’essersi tagliato nel medesimo punto in cui si ferì nella penultima sfida.

«Neanche parti e già finisci su un binario morto», è una delle ultime battute di Tully mentre prende un caffè con Ernie, lapidario aforisma di un’opera che è lo straziante canto del cigno di un’America superata. «Forse lui è felice», ribatte il più giovane rivolto al vecchio e sorridente barista, «o forse lo siamo tutti».

Dopodiché Billy si gira e uno zoom lo cattura con lo sguardo rivolto verso una fila di anziani avventori, bianchi e neri, seduti a giocare, che nonostante un’esistenza dimessa paiono più giovani di lui.

«Facciamo ancora due chiacchiere, ok?», supplica Billy, mentre la camera resta immobile sugli appaiati protagonisti, intenti a bere con lo sguardo nel vuoto, senza che nessuno dei due apra bocca. Gli ultimi “falchi della notte”, testimoni del Prima e del Poi: identico il risultato. Non resterà che aspettare i bambini di un altro sogno chiamato Florida, nell’omonimo film di Sean Baker, pronti a sfuggire agli egoismi del mondo adulto per concretizzare una nuova chimera: correre a Disney World, il mondo della fantasia. Viva la poetica della nostalgia!