36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal

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Alle 21:15 su Cielo (canale 26) 36 Quai des Orfèvres del regista francese Olivier Marchal. Film del 2004 che rispetta a pieno la tradizione del polar francese e di cui scriveva Jonny Costantino su Cineforum 442.

(Come vi avevamo anticipato, segnaliamo anche l'ultimo appuntamento con la saga di Alien alle 23:20 su Rai 4 con Alien – The Director's Cut).


L’incipit di 36 Quai des Orfèvres è da cardiopalma. Il totale di un istituto di pena è scalfito da un urlo. Segue una seconda inquadratura dell’edificio, prima che lo zoom ci conduca sul primo piano di un uomo che singhiozza, rannicchiato sulla branda. È Lèo Vrinks, come scopriremo. Dopo questo flashforward, compaiono due motociclisti intenti a svitare il cartello stradale di “Quai des Orfèvres”, la via che ospita la sede storica della polizia parigina e ha già dato il titolo a un film di Clouzot del 1947. [...] Pochi minuti e ci ha già travolto il battito del cuore nero di una Parigi satura di violenza.

Olivier Marchal ha trascorso dodici anni tra i ranghi della polizia francese, dei quali sette nell’antigang (Bri) e tre in una pattuglia notturna. Dopo Un bon flic (1999) e Gangsters (2002), per 36 Quai des Orfèvres, che ha anche co-sceneggiato, il regista prende le mosse da due fatti di cronaca a lui prossimi, oltre che dal proprio vissuto. Uno è la sparatoria del 14 gennaio 1986 tra la polizia parigina e l’efferata “Gang dei Postiches”, di fronte al Crédit Lyonnais di rue du Docteur Blanche[...]. L’altra vicenda è la condanna a dodici anni di reclusione di Dominique Loiseau, poliziotto dell’antigang imputato, insieme ad altri della Bri e della Brb, per reati quali corruzione, rapina a mano armata, associazione a delinquere. Loiseau si dichiarò sempre innocente e nel 1993 fu graziato da Mitterand. Marchal, che fece la sua conoscenza ai tempi della scuola di polizia, sostiene di non aver mai dubitato di lui, e lo ha voluto tra i collaboratori alla sceneggiatura del suo terzo lungometraggio, dedicato alla memoria di Christian Caron, anche lui compagno del 36, ucciso in servizio il 31 agosto 1989.

Scattano automaticamente le analogie tra tali avvenimenti e personaggi, nomi, accadimenti del film. Questi presupposti, tuttavia, non devono far pensare che il regista abbia voluto comporre un’agiografia panpoliziesca. Se difatti il mondo del crimine è descritto a tinte forti e tutto sommato monocrome, quello dei poliziotti è raccontato con attenzione alla fisionomia psicologica e morale dei tipi in gioco. Come il Figgis di Affari sporchi (1990), Marchal getta sugli “affari interni” della polizia uno sguardo smaliziato e sensibile alle ambiguità. Il suo variegato bestiario comprende lo sbirro marcio fino all’osso e quello che agisce secondo una giustizia che non per forza coincide con la legge, il pezzo grosso che ha imparato a calare le braghe e il piccolo flic che non ha paura di pisciare, letteralmente, sull’autorità. In fondo, quello tra Vrinks e Klein rappresenta lo scontro non manicheo tra ordini di valori inconciliabili: da un lato, l’ethos dello sbirro di trincea che crede nella propria missione e, simile al fuorilegge vecchio stampo, ha una parola che non rinnega, costi quel che costi; dall’altro, il calcolo di chi, deposta ogni deontologia, usa la professione come arma di potere, senza lesinare colpi bassi.

[...]

La visione di Marchal sarebbe di una cupezza sconfinata se non fosse mitigata dagli spiragli dell’amicizia virile e dalla presenza di donne che hanno più cuore e dignità della maggior parte degli uomini. In questo vibrante polar (sintesi tutta francese tra il poliziesco e il noir), illuminato in prevalenza da una metallica luce diurna, il cineasta svolge la lezione dei riconosciuti maestri, in primis l’ultimo Melville e il primo Corneau, con uno stile asciutto e un ritmo serrato degni del miglior Mann, almeno per quanto riguarda la prima parte, quella incorniciata tra il flashforward iniziale e la scena, successiva al funerale di Camille, in cui (ri)vediamo Vrinks piangere in cella. Da lì in avanti la qualità dello sguardo viene inficiata dalle pressioni di una morsa drammaturgica che deve chiudersi, e si chiude lasciando che gli eventi e le situazioni si accavallino in modo più o meno forzoso. Ne consegue che anche i personaggi principali perdono spessore strada facendo e, pur non svanendone il carisma, sembrano muoversi a tratti come pedine di un’opera che prende, verso il finale, una piega melò, accentuata dall’illanguidirsi melodico della colonna sonora.

[...] Nonostante il malinconico happy end, la morale del film resta amara e può essere racchiusa nello scambio verbale tra il direttore della polizia giudiziaria, rimasto inerte rispetto alla corruzione dilagata sotto la propria reggenza, e colui che sta per occupare la sua poltrona. Al quasi profetico avvertimento di Mancini: «Nella malavita quelli come lei finiscono in un parcheggio, con tre pallottole in testa», l’infame Klein, che ha da poco fregato l’amico del passato e ora pregusta gli allori, ribatte, più realista del re: «Nella malavita è da un pezzo che i tipi come me non ascoltano più i tipi come lei». Anche questo dialogo è ambientato in una sala da bagno – di un edificio che è pubblico come il bene a tutela del quale sono preposte le forze dell’ordine – e con gli esecutori (della legge) che parlano durante una pilatesca abluzione, nella quale stavolta entrambi sono intenti. Intanto, sullo specchio antistante rimbalza il doppio anarchico e osceno del potere che incorporano.