Black Dahlia di Brian De Palma

focus top image

Questa sera su Rai Movie (canale 24) alle 21:10, Black Dahlia di Brian De Palma. Ne abbiamo parlato un mese fa in occasione della retrospettiva che, proprio in questi giorni, il Torino Film Festival sta dedicando al regista statunitense. Su Cineforum 458 si trova, invece, il pezzo di Giacomo Manzoli. Leggiamone alcuni passaggi.


Il primo lancio pubblicitario del film puntava tutto sulla fonte letteraria: Brian De Palma mette in scena James Ellroy, una miscela esplosiva che promette adrenalina e morbosità, personaggi contorti e intrighi elaboratissimi, atmosfere languide e perdizione, complesse evoluzioni stilistiche che fanno pendant con quelle narrative. C’è tutto questo nel film intitolato The Black Dahlia? Un dubbio ad un certo punto deve avere sfiorato i responsabili del marketing, che hanno cominciato a ripiegare sul fatto che si tratta di “una storia vera”. Ma si sa che Ellroy di storie vere ne ha raccontate poche (a parte, forse, la propria) e che quindi l’unica verità contenuta nel film riguarda il fatto di essere ispirato a un romanzo che a sua volta prende avvio da un delitto veramente commesso. Tutto qui. Un po’ poco per spettatori abituati a serial killer con un curriculum da tripla cifra o a stermini di massa. Ultima risorsa, Scarlett Johansson, diva del momento che nell’ultimo periodo ha monopolizzato con la sua voluttà labbrosa circa l’80% delle copertine dei periodici internazionali. D’altra parte, che il film avesse dei problemi era piuttosto chiaro per via della lunghezza del periodo di gestazione. Quando uno dichiara che l’autore del libro e uno sceneggiatore stanno lavorando da dieci anni a un progetto è chiaro che qualcosa non funziona, tanto più se il progetto in questione riguarda un libro di enorme successo popolare. Un libro avvincente e strutturato in maniera formidabile, con personaggi intensi e drammaturgicamente ineccepibili. [...] Detto in altri termini: è possibile fare un film che restituisca sullo schermo le suggestioni di un romanzo di James Ellroy? Risposta: no. Che la sola risposta al quesito, almeno fino ad oggi, sia negativa, lo dicono i fatti. I produttori, hollywoodiani e non, sono tutt’altro che idioti.

[…] Allora il problema, lo ripetiamo, sta altrove. Ma non, come si potrebbe pensare, nello stile con cui questi romanzi sono scritti. Non c’è nulla, nello stile di questo scrittore, che resista alla trasposizione cinematografica. Anzi, basta aprire una pagina a caso per capire che sono opere che sorgono da un immaginario fortemente condizionato da una narrazione rapsodica per immagini, cinematografica nella più classica delle accezioni, e che quella è pertanto la loro più profonda vocazione. Non serve insomma il ricorso a nessuno strutturalismo per rendersi conto che i romanzi di Ellroy nascono al cinema e al cinema vogliono tornare.

Il problema, lo ripetiamo, è un altro. Ed è un problema che L.A. Confidential era riuscito ad eludere mantenendo un profilo bassissimo, mentre si nota molto più chiaramente in Black Dahlia, come si notava nella trasposizione del più riuscito romanzo ellroyano mai scritto in Italia, «Romanzo criminale» di Placido/ De Cataldo.

Il fatto è così semplice che riesce a volte difficile vederlo. «Black Dahlia», come «Romanzo criminale», sono libri lunghi. Ma sono lunghi davvero. Sono centinaia di pagine, pagine vere, fitte, pesanti, dense. [...] Nei loro libri quelle centinaia di pagine sono piene di cose che succedono, fatti, azioni, intrecciate le une nelle altre in un rapporto strettissimo di causa ed effetto che non può essere infranto perché altrimenti cade tutto il castello. Allora, purtroppo, bisogna prendere atto che il cinema non è la forma adatta per rendere giustizia a questi testi e all’universo che sanno costruire. Anche qui niente di male. È un fatto al quale bisogna rassegnarsi. [...].

Nel frattempo, tornando a noi, dobbiamo accontentarci di film che, rispetto ai romanzi, suonano come pallidi e contratti succedanei. Ma basta un impietoso ed evidente deficit narrativo rispetto al libro di partenza a stabilire il fallimento di un film? La sensazione è che molti dei detrattori di Black Dahlia si siano legittimamente irritati per le molte e inevitabili debolezze che il film denota sul piano della sceneggiatura. E non si può dar loro torto. Tanto per fare qualche esempio, ad un certo punto vediamo che, nel giro di tre scene, uno dei due protagonisti annega in un delirio di benzedrina e amore nostalgico per una donna morta. Non ci vuole un genio del racconto per capire che per rendere credibile allo spettatore l’ossessione di un personaggio (e l’ossessione di un personaggio centrale deve essere credibile), bisogna necessariamente far partecipare lo spettatore di quella stessa ossessione. Così nei romanzi di Ellroy la parola benzedrina viene ripetuta centinaia di volte, così i suoi effetti distorsivi e così i segni su cui la mania compulsiva si sofferma. Nel film di De Palma, invece, quel simpaticone di Aaron Eckhart fino a un minuto prima è il più energico e lineare dei furbacchioni del distretto e – complice l’unica pasticca che gli vediamo inghiottire – il minuto successivo è un tossico con il sistema nervoso in mille pezzi. [...] E che dire dei disastri provocati sul piano della verosimiglianza da alcune evidenti cadute nel miscasting? Josh Hartnett è il perfetto interprete di Slevin (al di là della mediocrità del film) e se uno funziona nei panni dell’angelico ragazzotto metropolitano che rivela un’astuzia diabolica dietro allo sguardo stralunato, allora non può fare il duro dei bassifondi. Idem per quanto riguarda il bravissimo Aaron Eckhart, straordinario nel ruolo dell’astutissimo affabulatore in Thank You for Smoking, fallimentare nei panni del duro e spietato che si scioglie come un cavaliere medievale di fronte alle fanciulle in difficoltà.

Eppure, nonostante tutto questo, nonostante la conseguenza logica di ciò che stiamo dicendo sia un giudizio piuttosto duro sull’efficacia di The Black Dahlia in quanto film tratto da Ellroy e in quanto noir, può darsi che vi siano comunque ragioni sufficienti per apprezzarlo fino in fondo in quanto film di Brian De Palma.

[...] Chi, se non De Palma, sarebbe stato capace di ridurre il mito di Hollywoodland a una collinetta bulgara, di stravolgere il ben noto maschilismo del noir classico (che si radicalizza in maniera paranoica in Ellroy) in un gioco a tre fra donne ugualmente conturbanti, ciascuna delle quali è vittima, più o meno innocente, ma anche sufficientemente forte da far muovere gli uomini come delle sottospecie di manichini. È quanto fa la Johansson con i suoi due corteggiatori, la splendida Kirschner che spinge gli uomini alla perdizione anche da morta, nonché la Swank (posto che le due non si somigliano affatto come si pretende nel film) e perfino la bravissima Rachel Miner. Qualcuno potrebbe tirare in ballo quella misoginia che è stata più volte rimproverata a De Palma, ma in questo caso la passione irresistibile che il regista nutre nei confronti delle ragazze è più spudorata che mai, fino a sconfinare in un elogio musicaleggiante del lesbismo («The L World»…) che rivaleggia in ironia con una delle più note battute di Steve Martin.

Si potrebbero poi nominare molti altri fattori che rendono questo film irregolare estremamente attraente. Il continuo slittamento, anche stilistico, fra plot e subplot, la spudorata messa in scena del corpo della donna uccisa, un manichino interamente svuotato che non fornirebbe appigli neppure agli implacabili anatomo-patologi di C.S.I., un corpo di vittima ridotto ad opera d’arte, ridotto a inorganicità post-umana. E, per i cultori, uno dei più straordinari incontri di boxe che si siano mai visti sullo schermo, affinando l’esperienza di Omicidio in diretta e rivaleggiando con il Walter Hill di Undisputed (ciò che per qualcuno è condizione sufficiente per l’esistenza di questo film).

Poi ciascuno può divertirsi a trovarne altri o limitarsi a rifiutare The Black Dahlia come film deludente, conclusione che – lo ribadiamo – appare del tutto comprensibile. In pratica, una volta tanto, l’idea di un film che si può solo prendere o lasciare trova un oggetto al quale applicarsi senza che appaia solamente una formula retorica. Anche questo, forse, è un merito.