Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick

focus top image

Eyes Wide Shut, l'ultimo film di Stanley Kubrick, sarà trasmesso questa sera, lunedì 3 luglio, su Iris alle 23.25. Per l'occasione, riproponiamo la recensione che uno storico collaboratore della rivista, Giorgio Cremonini, scrisse sul n. 389 di Cineforum, quando il film uscì nelle sale nell'autunno del 1999.


Eyes Wide Shut non è un film d'amore. È una ricognizione nel desiderio, nell'insoddisfazione, nel dissidio fra inconscio e vita, fra le ennesime variazioni dell'opposizione natura/cultura, nell'inadeguatezza dell'uomo, che Kubrick ha sempre visto come un contenitore di pulsioni al tempo stesso simmetriche e asimmetriche, complementari e contraddittorie.

Tutto Eyes Wide Shut è una continua associazione binaria di figure speculari, a partire dall'opposizione contenuta nel titolo (wide/shut), per proseguire con la sequenza in cui i due protagonisti sono seduti, seminudi, davanti a uno specchio, e la steadycam avanza fino ad escluderli e a inquadrare solo la loro immagine, la loro duplicità sdoppiata; i loro corpi rosa si stagliano contro uno sfondo azzurro, mentre più avanti (quando Alice racconta il suo sogno) è lo sfondo a essere illuminato da colori caldi e i loro corpi sono lividi. Ha inizio qui, attraverso lo specchio, il viaggio di Eyes Wide Shut e naturalmente non è un caso che la protagonista si chiami Alice, anche se poi a viaggiare è soprattutto Bill, in uno dei tanti scambi simmetrici-asimmetrici del film.

Lo specchio, la coppia, il doppio – insomma il numero due: il legame è insistente, stretto, quasi ossessivo, in una parola strutturale. Il suo ceppo è Arancia meccanica. Due sono i protagonisti, due i sogni che li tormentano. Il protagonista Bill Harford incontra due volte il ricco deus ex machina Vietar Ziegler e due volte Milich, il gestore del negozio Rainbow, che ha una figlia che fa strani giochi con due giapponesi. Due sono le ragazze che vogliono mostrare a Bill «dove finisce l'arcobaleno», destinato a duplicarsi poi nel nome dello stesso negozio. Due sono gli uomini che vanno a prelevare di notte il pianista Nick Nightingale dal suo albergo. Due sono le volte che Bill vede Mandy, la ragazza prima salvata in casa Ziegler e ritrovata nella camera mortuaria, dopo essere stata forse sacrificata nell'orgia. Due sono le confessioni, di Alice e di Bill, due gli incontri con la droga, quello eccessivo di Mandy (un cocktail di eroina e cocaina) e quello morigeratamente wasp di Alice (soltanto marjuana). Due sono le prostitute da cui Bill si lascia inutilmente sedurre, Domino e Sally. E due sono in fondo le fughe di Bill da Marion (la seconda è solo una telefonata a vuoto, ma fa da corollario in negativo del primo incontro).

Le facce dell'uomo sono sempre due, tanto simili quanto inconciliabili, il prodotto di una dialettica imperfetta: la dualità dell'essere umano di Full Metal Jacket, la doppia vita di Jack Torrance in Shining, la ripetizione-ritorsione della via crucis di Alex in Arancia meccanica, l'ascesa e la caduta di Barry Lyndon… Comunque sia, tertium non datur. La vita è una condanna a-dialettica alla sospensione, all'ambiguità, alla imperfezione.

All'interno di quell'equilibrio-convivenza di opposti che è la coppia, lo spazio maggiore è riservato a Bill, come in Shining era riservato a Jack Torrance. Kubrick predilige l'anello più debole della catena. Bill è poco più che un manichino, incapace di prendere iniziative: aspetta solo qualcuno che lo guidi, dalle due modelle alla prostituta che lo aggancia per strada e infine alla moglie. È impacciato, non sa mai che cosa dire: «Non mi dai mai uno straccio di risposta chiara», lo rimprovera lei. I suoi rapporti col mondo si rifugiano continuamente in un cerimoniale meccanico e perbenista – oltre che, come vedremo, monetario – che riduce la comunicazione a puro esercizio fatico: all'inizio, quando lui le dice che è bellissima, lei protesta che in realtà non l'ha nemmeno guardata. E della comunicazione fàtica fanno parte la sua abitudine di ripetere sempre, in forma di domanda, l'ultima parte del precedente discorso dell'interlocutore (un esempio per tutti: «Sogno sempre cose strane», dice Alice; e lui: «Cose strane?») – ma soprattutto i convenevoli scambiati con Marion davanti al cadavere del padre. Non c'è bisogno di spingere il pedale del grottesco per affermare l'ironia della scena. Finché può farlo, Bill sceglie la fuga, e quando non può più farlo ed è costretto a scoprire il proprio vuoto (la maschera sul cuscino, in quello che dovrebbe essere il suo posto accanto a lei), scoppia in un pianto infantile, nemmeno tanto liberatrio, dopo il quale non sa far altro che chiedere di nuovo che fare. Bill è quello che, fra i molti riferimenti mitteleuropei del film, Musi! chiamerebbe un “Uomo senza qualità”.