Hugo Cabret di Martin Scorsese

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Questa sera su Rai Tre (canale HD 503), alle 21:15, Hugo Cabret di Martin Scorsese. Il film, nel 2012, si aggiudicò 5 premi Oscar a fronte di 11 nomination e valse il Golden Globe come miglior regista a Scorsese. Su Cineforum 511 lo speciale, che comprendeva l'articolo di Pier Maria Bocchi riportato qui.


Hugo Cabret. No, grazie

Quando fa comodo, nessuno si ricorda che Spielberg ha consumato buona parte della sua carriera sperando nel ritorno di una stupefazione fanciullesca. E sono in pochi pure a ricordare che, fra i tanti, Joe Dante ha inseguito per anni un sentimento cinefilo in equilibrio tra sincerità e ingenuità, tentando di applicare il passato al presente, ancorché di genere. Ma se lo fa Scorsese, che a detta di molti è il più grande regista del mondo, e che continua sacrosantamente a battersi per preservare il cinema che fu, allora è una specie di miracolo. E via coi premi e con le lodi. D’altronde, con un’ambizione che non può essere sottovalutata, egli torna addirittura alle origini, ai Lumière e a Méliès, e nessuno l’aveva fatto, finora. O no?

Il problema di Hugo Cabret è che, alla fine della fiera, non dice molto di più di un Neverland – Un sogno per la vita qualsiasi. E sì che Marc Forster è un signor nessuno, perlomeno se confrontato a Scorsese. Le cose che Hugo Cabret mette una in fila all’altra sono buone e giuste: il recupero della memoria, la conservazione e l’eredità del passato, la necessità di lasciare alle nuove generazioni questo stesso passato, l’indispensabile rincorsa verso l’innocenza di sguardo, il rapporto tra adulti e bambini, il racconto di formazione, l’amore. Insomma, di certo non delle inezie. Ma dove sta la novità? Dovrebbe stare nell’autore, cioè in Scorsese, perché se le dice lui, queste cose, allora bisogna pure ascoltarle, e crederci. Ma a cosa serve fare un discorso autoriale in questo caso? La poetica è bella però è una brutta bestia, perché rischia di assolvere tutto. In quanti giustamente se la sono sentita all’epoca di difendere Hook – Capitan Uncino perché perfettamente aderente all’ideologia spielberghiana?

Ben venga la meraviglia, ma celebrare un cineasta soltanto perché egli ci ricorda che non siamo soli, e che non siamo nati oggi, è un po’ pochino. Quante volte abbiamo rimproverato a Spielberg di essere zuccheroso? Quale posto occupa adesso Joe Dante nella classifica di gradimento della critica? Eppure è tanta e tale la voglia di recuperare, oltre al passato, lo Scorsese che piaceva a tutti, che ci affrettiamo a difenderlo a spada tratta nel momento in cui abbandona i toni cupi per risplendere di gioia cinefila. Chi però si è accorto, ben prima di Midnight in Paris, che i discorsi di Woody Allen sul tempo andato non sono mai stati poi così diversi da quello di Hugo Cabret? E pensare che anche Allen, in Una commedia sexy in una notte di mezza estate, tirava in ballo la lanterna magica! Chi sarà disposto ad ammettere che Twixt di Coppola è una vera e propria attestazione politica? Eppure anche lui recupera il passato, anche lui guarda indietro per guardare alla contemporaneità e al domani: però lo fa attraverso un piccolissimo film horror indipendente in HD a carte scoperte e senza protezioni, e quindi totalmente esposto a sbeffeggiamenti (che puntualmente sono arrivati). L’intransigenza e il cinismo critici possono farci dubitare di The Artist e dell’onestà intellettuale del regista, però è sacrosanto che la sua tesi a conti fatti sia identica a quella alleniana e coppoliana, che cioè il passato è utile soprattutto per andare avanti, e non per impigrirsi nella nostalgia e nella malinconia. Ma Hazanavicius, si dirà, non è Scorsese. Ecco.

Provo allora a difendere Hugo Cabret con gli strumenti che la maggior parte della critica usa per difendere un film di Scorsese, ovvero con un’aggettivazione da ortofrutta. Hugo Cabret è girato da dio, è emozionante, è commovente, è trascinante. Perbacco, come si fa a resistere al carrello iniziale in 3D? O alla girandola esilarante dell’inseguimento per tutta la stazione del protagonista da parte del dobermann? Non c’è che dire, girato da dio, montato da dio, Scorsese d’altronde è dio. Ma sbaglio o un carrello simile, sebbene all’inverso, apriva Contact di Zemeckis? Come si fa a non palpitare per il rapporto tra Hugo e l’uomo meccanico?

Hugo vuole capire perché il suo papà non c’è più, cercando di risolvere il mistero dell’automa. Ma cosa raccontava Spielberg – ancora lui – in A.I. Intelligenza artificiale? L’effetto tridimensionale dell’interno dell’orologio, con tutti i suoi bravi meccanismi e le sue brave rotelline, è sbalorditivo e di una limpidezza straordinaria: ma è quantomeno curioso constatare che un risultato simile, anche se obiettivamente meno impressionante, è raggiunto proprio da Coppola in Twixt, in una delle due scene in 3D del film.

Mi rendo conto però che cercare analogie è esercizio antipatico e inutile. Quindi guardo altrove. Guardo a Hugo Cabret come a un’opera emozionante, trascinante, commovente. Ma non mi pare che tutta questa emozione e tutto questo trascinamento siano così perfetti. Il film qualche problema di ritmo ce l’ha eccome, dopo i fuochi d’artificio con cui si apre. È che Scorsese vuole enunciare, vuole sottolineare, vuole spiegare a chiare lettere e a chiare chiacchiere in modo che capiscano tutti, adulti e bambini, cinefili e appassionati, curiosi e ignoranti. L’amichetta di Hugo non è mai stata al cinema e dunque non ne conosce l’effetto? Ecco pronta la visione della celebre comica Preferisco l’ascensore, in cui Harold Lloyd è appeso all’orologio sul vuoto: seguono risate e meraviglia come da copione. Possono mancare i Lumière? No, direi di no. E se nessuno conosce Méliès? Niente paura, Scorsese svela i trucchi e mostra la magia del suo cinema, però con un’insistenza che alla fine ti mette sul chi va là, lasciandoti qualche sospetto di pedanteria. Sospetti peraltro non mitigati da una confezione che non rinuncia a un associazionismo di dubbio gusto: perché Hugo deve finire anche lui appeso alle lancette sul vuoto? Perché Scorsese sente il bisogno di “rifare” la suspense dell’arrivo del treno nella stazione dopo averci già fatto vedere il giovane Méliès testimone dell’effetto sugli spettatori di L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat? Serve davvero riconfermare in tal modo un immaginario? Forse da Scorsese potremmo aspettarci qualcosa di più di una predica, perché Scorsese è pur sempre Scorsese, perdinci! E a cosa serve la scena finale, con la platea che applaude commossa il ritorno alla vita di Méliès e della sua arte, e con l’artista che dal palco ringrazia Hugo per la sua perspicacia pura? Già, la commozione, eccola qui. L’arte trionfa, i sentimenti trionfano, viva la vita. Niente in contrario, per carità, ma c’è una certa stucchevolezza, tradita anche dalla scrittura pesante di alcuni personaggi (la guardia della stazione, la coppia coi cani, la dolce fioraia). Scorsese ci suggerisce di sospendere l’incredulità, tornare a guardare il cinema con occhi da bambini, non dimenticare da dove veniamo e chi ci ha preceduto, tra le altre cose: siamo tutti più che (ben) disposti, però forse non abbiamo bisogno, oggi, di qualcuno che ce lo insegni in questa maniera. Perché di maniera si tratta: entusiasta, passionale, magari perfino contagiosa, però sempre maniera.